Relazione sul tema
«La vocazione dell’uomo»

1 Febbraio 1987
fotocopia, pp. 9, AGP, b. IV, fasc. 6.

Il documento contiene un’approfondita analisi del servo di Dio sulla problematica della vocazione dell’uomo e del valore della vita di ciascuno. Prendendo spunto dalle osservazioni di esperti studiosi del settore quali Frankl, Fromm etc., Padre Puglisi evidenzia l’interrogativo sempre presente nell’uomo, ovvero quale sia il senso della propria vita, sia come singolo, sia nei rapporti con gli altri. Varie sono le risposte possibili ma quella più rilevante e comprensiva di ogni altro significato è che «la vita è vocazione all’amore (che è Dio stesso); … quindi vocazione alla Comunione di Dio». Ma questa comunione con Dio è possibile realizzarla solo «attraverso la comunione con gli altri uomini». Queste considerazioni sono il frutto dello studio e della meditazione approfondita di Padre Puglisi dei documenti del Concilio Vaticano II, più volte citati e commentati dal servo di Dio, vista l’importanza del rinnovamento apportato da tale Concilio. Esemplare è il richiamo ad una immagine tratta dal teologo Consoli, quella del volto di Cristo in cui «ciascuno di noi è come una tessera del grande mosaico che è il volto di Cristo»: sta poi a ciascuno di noi capire il posto che dobbiamo occupare affinché il volto di Cristo assuma la sua bellezza. Da questa relazione è possibile desumere una conoscenza profonda del servo di Dio delle problematiche esistenziali ed una ricerca di risposte tra quegli autori che più sé ne sono interessati. Queste risposte però vengono consapevolmente filtrate ed assimilate dal servo di Dio, il quale fa proprie anche le indicazioni del Concilio Vaticano II al fine di portare a conoscenza degli altri il messaggio innovatore del Cristo.

LA VOCAZIONE DELL’UOMO

Relatore: Padre Puglisi

Da sempre, da quando l’uomo ha preso coscienza della sua esistenza, si è chiesto: «Qual è il valore ed il senso della mia esistenza?». E, più in generale, “Chi è l’uomo?” Ecco il perenne interrogativo – “chi sono io? Qual è la mia identità? La mia vita ha un senso? Cioè: lo ha dapprima, glielo do io, lo danno gli altri? Quale il senso, eventualmente, di questa vita?” È l’interrogativo al quale hanno cercato di rispondere da sempre gli uomini, e tutte le filosofie hanno cercato di dare una qualche risposta. Oggi, soprattutto, nel pluralismo culturale nel quale viviamo. le risposte, direi, non si riescono più a contare. Alcune, disfattiste, nichiliste, altre più costruttive. Non mi fermo qui ad enumerare tutte le risposte, fra l’altro sarebbe troppo lungo. Soltanto vorrei fare cenno a due risposte laiche; quella di Viktor Frankl, logoterapeuta (o psicanalista) e quella di Erich Fromm. Viktor Frankl ha fatto questa considerazione: “L’uomo angosciato del mondo contemporaneo ha spesso paura di aspettare il mattino per ricominciare a vivere; paura di continuare a sorridere, paura di riprendere a lottare. Quasi, si sente colpevole di essere vivo. È la disumanizzazione più completa.” E quindi ecco Frankl che cerca di riumanizzare l’uomo.

Frankl afferma appassionatamente che ognuno ha la sua specifica chiamata, la sua vocazione particolare. Per la logoterapia la vera essenza della vita sta nella responsabilità. Responsabilità verso le cose, le persone, le idee, verso i figli, i genitori, gli insegnanti.

Una responsabilità non identica per tutti, ma diversa per ognuno. Una responsabilità che varia da persona a persona, e da situazione a situazione. E, quindi, anche per curare la nevrosi e la depressione, la cosa più importante è il compito per il quale ognuno deve lottare nella propria vita. Ciò vale di più del denaro, del successo, del piacere. Questa, diremmo, la risposta di Frankl. Quindi Fankl dice che bisogna dare uno scopo alla vita. E lo scopo è nella responsabilità verso le persone.

Una volta gli regalarono un boomerang e gli spiegarono come funzionasse. Gli fu spiegato che tale oggetto ritorna verso colui che lo ha lanciato quando ha sbagliato la mira, quando non ha colpito la preda. E lui argutamente commentò (chi riferisce è un discepolo, Eugenio Fizzotti, che fa l’introduzione a questo suo libro Alla ricerca di un significato della vita): «Proprio come la vita dell’uomo: egli si chiude in sé stesso quando ha fallito, quando ha sbagliato nel compito da realizzare, quando ha dimenticato qualcosa al di fuori di sé stesso». In fondo la maniera migliore per dimenticare le nostre preoccupazioni consiste nel darsi agli altri. La forma più sicura per ottenere la gioia e la pace, è quella di fare qualcosa per gli altri. E questo può deciderlo solo il singolo. L’uomo è libero di costruirsi il proprio futuro. Sta a lui arricchirlo o deformarlo. C’è proprio in Frankl, potremmo dire, questo dare all’uomo la capacità progettuale, guardare al futuro nel servizio, nel dono, nel rendersi utile agli altri, così si costruisce la vita.

Freud invece, in certo senso, scavava nel profondo, nel passato, nella storia anche della prima infanzia, per poter vedere quali erano le origini di certi turbamenti. Quindi, in certo senso, Freud ripiega nel passato, mentre Frankl guarda nel futuro e dà una speranza alla vita. Ma è sempre, nonostante tutto, una risposta a livello umano.

Un’altra risposta è quella di E. Fromm. Una risposta anche questa positiva, mi sembra. In quel libro che molti abbiamo letto Avere o essere, dopo aver fatto un esame spietato della società di oggi propone un nuovo modello di società e quindi un nuovo modello di uomo dicendo qual è dunque il senso della vita dell’uomo. Dice così: «La funzione della nuova società è di incoraggiare il sorgere di un uomo nuovo, la cui struttura caratteriale abbia le seguenti qualità: la disponibilità a rinunziare a tutte le forme di avere per essere, senza residui. Enumera quindi altre qualità (sicurezza, sentimento di identità e fiducia) fondate sulla fede in ciò che è, interesse, amore, solidarietà con il mondo circostante anziché desiderio di avere, possedere, di controllare il mondo divenendo così schiavo dei propri possessi. Un’altra qualità: accettazione del fatto che nulla e nessuno al di fuori di noi può dare significato alla nostra vita, ma che questa indipendenza e distacco radicali dalle cose, possono divenire condizione della piena attività volta alla compartecipazione, all’interesse per gli altri.

La gioia proviene dal dare e condividere, non già dall’accumulare e sfruttare.

Ecco, Fromm pare che dica: non è in fondo l’avere, il possedere, il successo, che dà felicità all’uomo, senso e pienezza di vita all’uomo. È invece l’essere. Lui intende per “essere” ciò che l’uomo può dare, ciò che cresce dentro di noi, se noi lo diamo agli altri. Tutto quello che invece quando noi lo diamo agli altri diminuisce per noi, allora non merita che noi lo facciamo diventare oggetto principale delle nostre preoccupazioni: il denaro, le ricchezze, il successo, se noi li diamo agli altri diminuiscono per noi. Mentre l’amore, la fede, tutte quelle cose che invece appartengono all’ordine spirituale, quanto più ne diamo agli altri, tanto più amiamo gli altri, tanto più cresciamo noi nell’amore, cresce l’amore dentro di noi.

In fondo quell’essere, per lo stesso Fromm, è sinonimo di amare, di servire, di donarsi. È capacità di dare totalmente sé stessi.

Penso mi sia lecito fare un’ulteriore riflessione sia su Frankl sia su Fromm. Frankl forse non parla esplicitamente, però ha certe volte delle espressioni che fanno comprendere che il senso radicale della vita lo si può trovare nella consapevolezza di essere creatura di Dio. Frankl è un ebreo credente, ha avuto la esperienza di Auschwitz e ne è uscito appunto perché aveva trovato un senso alla sua vita anche lì. Molti altri, invece, andavano ad attaccarsi al filo ad alta tensione, non potendo resistere a tutte le umiliazioni e le sofferenze di Auschwitz. Lui dà, in fondo, una risposta che va di là di quelle che sono le risposte semplicemente umane.

Fromm afferma che nessuno e nulla al di fuori di noi può dare significato alla nostra vita; invita a cercare soltanto dentro di noi il senso della vita. Fa ritornare alla mente quanto diceva S. Agostino, che cioè nel profondo di noi stessi troviamo il Maestro che è Cristo e che nel profondo di noi stessi troviamo Dio stesso. La risposta, appunto, cristiana è in parte contenuta in queste affermazioni di Frankl e di Fromm.

La risposta cristiana è questa: la vita è vocazione all’Amore (che è Dio stesso). Vocazione all’Amore, quindi vocazione alla comunione con Dio. È nella comunione con Dio che consiste la pienezza di vita dell’uomo. Questa comunione con Dio si realizza attraverso la comunione con gli altri uomini e questa comunione con Dio e con gli altri uomini dà, già da ora, una caparra che sarà la gioia senza fine quando saremo ammessi a goderne in un modo straordinario, inesprimibile adesso.

Io vorrei sviluppare questo pensiero fondamentale ripercorrendo i documenti del Concilio. Forse anche in un certo senso per completare quello che abbiamo meditato durante il nostro primo corso. È già passato un ventennio dalla chiusura del Concilio Vaticano II, ma i documenti del Concilio sono di pienissima attualità, anzi purtroppo ancora non sono del tutto passati nella nostra mentalità, nella nostra vita e nella nostra attività. Quindi è necessario che sempre ritorniamo ai documenti del Concilio. Vorrei soprattutto riferirmi a due documenti che parlano più chiaramente e più a lungo di questo argomento: la “Gaudium et Spes” (G.S.) e la “Lumen Gentium” (L.G.).

La G.S. osserva che l’uomo adesso sta attraversando crisi speciale, una crisi che è una svolta nella storia dell’umanità. L’hanno detto anche parecchi osservatori laici. Molti hanno parlato di tramonto dell’occidente. Qualcuno anche di agonia del Cristianesimo. Alcuni hanno parlato di fine dell’uomo moderno e così via. È una svolta nella storia dell’umanità. In questa svolta l’uomo, quanto più estende la sua potenza, tanto meno riesce a porla a suo servizio. Si sforza di penetrare nel più intimo del suo animo, ma spesso appare più incerto di sé stesso. Segue, man mano, più chiaramente le leggi della vita sociale, ma resta poi esitante sulla direzione da imprimerle. E va avanti parlando dei contrasti sociali, economici, politici, razziali, ideologici, e così via: «Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con quelli che man mano si scoprono. Per questo sentono il peso dell’inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Tale andamento sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta». E quindi tutte le varie aspirazioni, gli squilibri del mondo contemporaneo, i mutamenti psicologici, morali, religiosi, tutti quanti diventano degli interrogativi per l’uomo.

Dice ancora la “G.S.” al n.10: «In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura sperimenta in mille modi i suoi limiti, dall’altra si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e di essere chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in sé stesso di una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società».

L’uomo si sente diviso e allora ecco ancora gli interrogativi: «cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso, continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l’uomo alla società e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita? Che cos’è l’uomo?». È ancora il Concilio (G.S. 12) che dice: «Molte opinioni l’uomo ha espresso ed esprime sul suo conto. Opinioni varie e anche contrarie. Perché spesso o si esalta, cosi da fare di sé una regola assoluta o si abbassa fino alla disperazione finendo in tal modo nel dubbio e nell’angoscia. Questa difficoltà (ecco la risposta che comincia a dare lo stesso Conc.) la Chiesa la sente profondamente, e ad essa cerca di dare una risposta che viene dall’insegnamento della divina Rivelazione. Risposta che descrive la vera condizione dell’uomo, dà una ragione delle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere, giustamente, la sua dignità e vocazione. Ed ecco la risposta: «La Sacra Scrittura insegna che l’uomo è stato creato a immagine di Dio: capace di conoscere e di amare il proprio creatore e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio.

«Che cos’è l’uomo che tu ti ricordi di Lui? O il figlio dell’uomo che tu ti prenda cura dì lui? L’hai fatto di poco inferiore agli angeli, l’hai coronato di gloria e di onore e l’hai costituito sopra le opere delle tue mani. Tutto hai sottoposto ai suoi piedi» (Salmo 8).

Ma Dio non creò l’uomo lasciandolo solo. Fin da principio uomo e donna li creò. E la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone. L’uomo, infatti, per la sua intima natura, è un essere sociale e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti. Perciò Dio, ancora come si legge nella Scrittura, vide tutte queste cose che aveva fatto ed esse erano buone assai (Gen 1,31).

Questo, dunque, è il senso della vita dell’uomo. L’uomo è creato ad immagine di Dio. Quindi è frutto dell’amore di Dio. Anzi è il frutto più alto di questo amore: e Dio lo ha posto al di sopra di questa piramide che è il creato. Anzi proprio come Segno di amore ha creato tutto l’universo, come segno d’amore per l’uomo. È ad immagine di Dio, cioè segno della presenza di Dio. E l’icona è quasi una ipostasi, cioè quasi una incarnazione della persona di cui è immagine. Cioè attraverso quella immagine noi possiamo raggiungere colui è raffigurato in quella immagine.    Questo è l’uomo: immagine di Dio. Ma per essere immagine di Dio dovrà essere trasparenza di Lui e quindi dovrà accoglierlo dentro di sé. Dovrà diventare tanto a lui da fondersi con Lui, secondo l’espressione di S. Paolo nella lettera ai Galati: «Io vivo, ma non sono io che vivo. Cristo vive in me» (Gal 2,19-20). L’uomo dunque chiamato ad essere tutto questo. Dove realizza pienamente l’umanità questo ideale, questa vocazione? La realizza nell’uomo-Cristo. È lui l’uomo nuovo. E la stessa G.S. al n. 22 dice così: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, è la figura di quello futuro. È cioè la figura di Gesù, il Cristo. Cristo è il nuovo Adamo. Ed egli rivela il mistero del Padre e del suo Amore e svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità, che sono state prima esposte, trovino in Lui la loro sorgente e tocchino il loro vertice

Ma dove l’uomo trova poi questa possibilità di unirsi a Cristo e di essere in comunione con Lui, di diventare una sola cosa con Lui? È nella Chiesa, nella comunità cristiana. Nella costituzione “Lumen Gentium” n.2 viene detto: «L’eterno Padre con liberissimo e arcano disegno di scienza e di bontà ha creato l’universo, ha decretato di elevare gli uomini alla partecipazione della vita divina, e quando essi caddero in Adamo, non li ha abbandonati ma sempre ha portato loro gli aiuti per salvarsi in considerazione di Cristo redentore, «il quale è l’immagine dello invisibile Dio generato prima di ogni creatura.»

Tutti gli eletti il Padre li ha conosciuti fin dall’eternità nella sua prescienza e li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio Suo affinché egli sia il primogenito di una moltitudine di fratelli. I credenti in Cristo li ha voluti convocare nella Santa Chiesa la quale, già prefigurata fin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo di Israele e nell’Antica Alleanza, e istituita negli ultimi tempi, è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli.”

Dunque, è proprio lì, nella comunità cristiana, nella chiesa, che tutti riuniti da un’unica vocazione diventano una sola cosa in Cristo: una sola cosa. Diventano dunque il Corpo di Cristo. Leggiamo nella lettera agli Efesini: uno solo è il corpo, uno solo è lo Spirito, una sola è la speranza. Si parla proprio di questo corpo in cui noi siamo inseriti attraverso il Battesimo. La Chiesa dunque è quel corpo di Cristo nel quale la vita del Signore, di Cristo, si diffonde nei credenti per mezzo dei sacramenti. E questi vengono uniti in modo arcano, ma reale, a Cristo che ha sofferto ed è stato glorificato.

«Per mezzo del Battesimo siamo resi conformi a Cristo: infatti noi fummo battezzati in un solo Spirito per costituire un solo Corpo» (1Cor 12,13). Con questo rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e risurrezione di Cristo. “Fummo infatti sepolti con Lui, col Battesimo, nella sua morte, e sé fummo innestati a Lui con una morte simile alla sua, ugualmente, lo saremo in una risurrezione simile alla sua” (L.G. 7). Quindi costituiamo in Cristo un solo corpo e diventiamo una sola cosa in Lui. Ovviamente ciascuno nella diversità dei doni ricevuti. Tutti quanti, dunque, secondo l’espressione di un teologo nostro siciliano, padre Consoli, rettore dello studio teologico di Catania, tutti quanti siamo come l’unico volto del Cristo. Tutti diventiamo figli nel Figlio, Cristo. Come in quel volto che c’è raffigurato a Monreale, ciascuno di noi è come una tessera di questo grande mosaico, diceva lui. E quindi tutti quanti dobbiamo capire qual è il posto che dobbiamo occupare perché questo volto acquisti la sua bellezza, e sia, direi, attraente per tutta l’umanità.

Tutti quanti dobbiamo capire qual è il nostro posto e dobbiamo aiutare anche gli altri a capire qual è il proprio, perché si formi l’unico volto del Cristo, splendente della sua Gloria.

Sempre nella L.G. al n.12 viene detto così: «Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il popolo di Dio, lo santifica e lo adorna di virtù, «ma distribuendo a ciascuno i propri doni, come piace a lui» (1Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine, grazie speciali con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi varie opere ed uffici utili al rinnovamento della Chiesa e allo sviluppo della sua costruzione, secondo le parole: «A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio» (1Cor 12,7). E questi carismi o anche più semplici e più largamente diffusi, siccome sono soprattutto appropriati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione.

I doni straordinari, però, non si devono chiedere temerariamente, né con presunzione si devono da essi sperare i frutti dei lavori apostolici, ma il giudizio sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinato appartiene a quelli che presiedono nella chiesa ai quali spetta, specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono».

Ecco quindi questa Chiesa che si identifica, come dirà poi recentemente un documento di 4 congregazioni della S. Sede, documento conclusivo del 2° Congresso Internazionale per le Vocazioni, al n. 15: «La Chiesa è in stato di vocazioni e si identifica con tutte le vocazioni di cui è costituita». Cioè ciascuno che fa parte della Chiesa ha una sua vocazione, e quindi Chiesa uguale persone in stato di vocazione, persone chiamate.

Questa Chiesa, dunque, costituita da tutti questi doni e da tutti questi carismi, nella ricchezza che lo Spirito profonde, ricchezza di gemme preziose che lo Spirito dà alla Sposa di Cristo che è la Chiesa, questa Chiesa risplenderà tanto più quanto più evidenti e più chiare saranno le varie vocazioni e quanto più fedeli e più perseverarti saranno quelli che hanno ricevuto le varie vocazioni e i vari carismi, alla vocazione e al carisma ricevuto.

Volevo concludere con una poesia di un autore brasiliano che voleva essere una sintesi di quello che ho finora detto: «Mi iscrissi alla scuola dico, ai giardini di Epicuro e mi associai alla legione immensa dei cacciatori della bella farfalla e quanto più ricevevo, tanto più desideravo ricevere. Ma poiché ciò che potevo possedere era sempre più di quanto possedevo, mi sentivo infelice. Riconobbi l’errore della mia matematica, cambiai strada, mi misi a correre nella direzione, opposta. Entrai nella scuola, dico nelle lotte, di Diogene, il cinico di Sinope, il massimo filosofo del nichilismo negativo; nel rigido alambicco della mia persecuzione distillai il vino rosso della mia insipienza, il sottilissimo alcool del mio nero pessimismo, proclamando al mondo stupefatto che la felicità consisteva nel possedere nulla. E mi nascosi nella mia botte per dormire il sonno dei giusti. E mi svegliai, solo Dio sa per quale inaudito miracolo, mi svegliai ai piedi del Nazareno. Non vestiva manto di porpora, come Epicuro, né andava nudo come Diogene. E ascoltai quelle parole brevissime ed immense: «Beati i poveri di spirito, beati i puri di cuore». Compresi allora che la mia missione non era per ricevere, e, tanto meno, sdegnarmi di ricevere, ma piuttosto ricevere per dare» (Huberto Rohden).


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