MAFIA E MARTIRIO
di Bartolomeo Sorge S.J.
da Aggiornamenti sociali n.11 [1999] pp.719-722
Il 15 settembre 1999, nel sesto anniversario della sua morte, si è aperto a Palermo il processo di beatificazione di don Pino Puglisi, parroco al quartiere Brancaccio, ucciso dalla mafia. La grande stampa ha praticamente ignorato l’avvenimento.
Eppure il martirio di don Pino è destinato a segnare una svolta nella lotta alla criminalità organizzata. È il classico chicco di grano evangelico che, cadendo in terra e morendo, produce molto frutto. Gli assassini di don Pino si erano illusi di farlo tacere. Di fatto, uccidendolo, ne hanno amplificato la voce e la testimonianza. Per l’ennesima volta, la mafia è caduta nell’errore di pensare che gli ideali si possano spegnere a colpi di lupara. Così, paradossalmente, grazie a quella barbara esecuzione, don Puglisi — prima conosciuto solo da pochi — si è trasformato in un simbolo per tutti; la Chiesa intera si sente ora interpellata dal fenomeno mafioso, e lo denuncia apertamente come incompatibile con il Vangelo, giungendo a scomunicare quanti vi aderiscono.
Don Pino non era una «testa calda», né un prete politicante. Era il parroco di un quartiere popolare di Palermo, ad alta intensità mafiosa. Era un pastore coraggioso e deciso, questo sì; ma semplice e schivo come la maggior parte dei bravi sacerdoti palermitani, che lavorano nelle parrocchie del centro e della periferia, in silenzio e senza suscitare clamore, traendo dalla preghiera, dalla Parola di Dio e dall’amore per i fratelli la luce e la forza con cui — giorno dopo giorno — guidano al riscatto morale e alla liberazione il popolo a essi affidato.
Perciò la morte di don Puglisi, più che una data da commemorare, è un «segno dei tempi» da interpretare, una lezione da apprendere, una testimonianza da proseguire.
- Un «segno dei tempi» da interpretare.
Don Puglisi, in virtù del suo sacrificio, ormai non appartiene più al quartiere Brancaccio, né solo a Palermo e alla Sicilia. Appartiene alla Chiesa universale. La sua vicenda, non è più soltanto personale, ma si inscrive nel contesto più ampio dei «segni dei tempi», che orientano profeticamente il cammino della comunità cristiana in questa transizione verso il terzo millennio.
Infatti tra i segni di speranza, che — nonostante il male dilagante dei nostri giorni — annunciano una nuova primavera cristiana, Giovanni Paolo II indica proprio il ritorno dei martiri. «Nel nostro secolo sono ritornati i martiri — egli scrive nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente —. La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri: Sanguis martyrum, semen christianorum. […] Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri» (n. 37).
C’è però un aspetto particolare nei nuovi martiri dei nostri giorni: essi vengono uccisi non perché credono, ma perché amano; non in odium fidei, ma in odium amoris. Ovviamente la loro non è mera filantropia, ma autentica carità cristiana, cioè un amore che nasce dalla fede e si alimenta di fede: questa «carità, secondo le esigenze del radicalismo evangelico, può portare il credente alla testimonianza suprema del martirio» (GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n. 89). Così, padre Massimiliano Kolbe non è stato ucciso perché ha creduto, ma perché ha amato: Giovanni Paolo II ha voluto che fosse insignito del titolo di martire, perché la carità lo spinse a prendere il posto di un condannato a morte nel lager di Auschwitz. Parimenti, mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, è stato ucciso non in odio alla fede, ma perché amava i campesinos e chiedeva per loro una vita degna di figli di Dio. Così, a sua volta, don Pino è stato ucciso perché la mafia non poteva tollerare l’amore con cui egli si dedicava a sottrarre i giovani alla strada e alla malavita. Questo, dunque, è il messaggio che i nuovi martiri trasmettono: il male si vince con il bene, l’odio si vince con l’amore.
Ciò è tanto più vero, quando si tratta di estirpare un fenomeno come la mafia, le cui radici sono essenzialmente culturali, di mentalità e di costume. La testimonianza che Salvatore Grigoli, l’assassino di don Puglisi, ha reso pubblicamente dopo essersi convertito, conferma che per estirpare la mafia non bastano le armi dei carabinieri e della polizia; anche i mafiosi le hanno. Non bastano i politici e i magistrati, che la mafia può corrompere o uccidere. Certo, ci vuole il coraggio delle forze dell’ordine, ci vogliono i politici e i magistrati onesti; ma la forza decisiva per sconfiggere la mafia è l’amore, la carità alimentata dalla fede, che sola può trasformare le coscienze, cambiare la mentalità, la cultura e la vita. Questo spiega perché la mafia, che non teme lo Stato, le forze dell’ordine e la magistratura, ha paura poi della Chiesa: getta bombe a Roma contro San Giovanni in Laterano, la Basilica del Papa, dopo la forte condanna della Valle dei Templi ad Agrigento, uccide i sacerdoti come don Pino che non si piegano.
Ecco perché il martirio del parroco di Brancaccio è un autentico «segno dei tempi».
- Una lezione da apprendere.
Tuttavia don Puglisi, con la sua attività pastorale coronata dal martirio, ha anche insegnato concretamente come si evangelizza in terra di mafia. Il Papa, nella sua seconda visita pastorale in Sicilia (4-6 novembre 1994), ha ricordato esplicitamente questa lezione: «Penso — ha detto a Catania — a don Giuseppe Puglisi, coraggioso testimone della verità del Vangelo»; e, riprendendo il discorso a Siracusa, ha specificato: «Non cedete alle tentazioni dell’apatia, del torpore e della pigrizia, che conducono all’inerzia e all’accettazione fatalistica del male e dell’ingiustizia».
La lezione di don Pino è stata semplice. Innanzi tutto, egli si è preoccupato di fare popolo, di fare famiglia; di «incitare — applicando a lui le parole del Papa a Siracusa — tutte le forze sane della società a stringersi in un nuovo impegno di solidarietà costruttiva». Anche don Pino avrebbe potuto ripetere con le parole di Giovanni Paolo II: «Sono venuto per dirvi: non rimanete ripiegati su voi stessi! Alzatevi e levate il capo!» (Discorso del 5 novembre 1994).
Don Pino considerava la promozione umana come parte integrante della evangelizzazione. I gravi problemi delle zone meno favorite del Paese non si possono risolvere con l’assistenzialismo, con l’elemosina, ma mettendo in grado i giovani e i meridionali di essere essi stessi i protagonisti del proprio sviluppo. Era per lui inaccettabile, ingiusto e indegno di un Paese civile che uno, per il solo fatto di essere nato a Palermo anziché a Milano, fosse condannato a restare per tutta la vita un cittadino di serie B.
Per questo si è impegnato a fondo don Puglisi. Con il Centro di accoglienza «Padre Nostro», fondato il 29 gennaio 1993, egli puntava a oltrepassare il piano della mera denuncia, per aprire possibilità concrete di formazione, di scuola, di lavoro e di sviluppo ai ragazzi di Brancaccio. Insomma, vincere il male con il bene e con la carità voleva dire dunque per don Puglisi amare non a parole, ma con i fatti e con la vita. Non poteva bastare enunciare principi e riaffermare valori; ai giovani bisognava dare speranze concrete di vita e di lavoro.
- Una testimonianza da proseguire.
Don Puglisi non ha scritto molto. Ci rimane però il testo di un suo intervento a un Convegno del movimento «Presenza del Vangelo», tenuto a Trento nell’agosto 1991, due anni prima del suo sacrificio. Il testo, finora inedito, è stato pubblicato in occasione dell’apertura della causa di beatificazione (cfr. «Giornale di Sicilia», 15 settembre 1999, p. 5), e, per alcuni aspetti, esso risulta profetico.
«Siamo testimoni della speranza», egli dice; e aggiunge, quasi presago: «La testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio, infatti testimonianza in greco si dice martyrion. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza». Poi prosegue: testimonianza e martirio dovranno servire a dare fiducia a «chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società, che vede ostile». «A chi è disorientato — conclude —, il testimone della speranza indica non cos’è la speranza, ma chi è la speranza. La speranza è Cristo, e si indica logicamente attraverso una propria vita orientata verso Cristo». Ebbene, di questa testimonianza ha ancora bisogno il nostro tempo. Il martirio del parroco di Brancaccio ne costituisce una tappa significativa, ma non è ancora il traguardo. Tocca alla comunità cristiana continuare.
Il clima penitenziale del Grande Giubileo del 2000, ormai imminente, può offrire l’occasione propizia affinché la testimonianza di don Pino rimanga viva e continui profeticamente a parlare al nostro tempo.
Oggi la Chiesa, per bocca del successore di Pietro, insiste nel chiedere perdono a Dio e ai fratelli per i «peccati storici» dei suoi figli: per le divisioni, per il ricorso alla violenza nel servizio della fede, per il mancato discernimento di fronte alla violazione di diritti umani fondamentali, per quanto è stato omesso o taciuto per debolezza o per errata valutazione (cfr. GIOVANNI PAOLO II, Catechesi del 1° settembre 1999). Perché — chiediamo — non aggiungere all’elenco di queste responsabilità storiche anche la richiesta di perdono per le connivenze, i ritardi, i silenzi, i compromessi dei cristiani e degli uomini di Chiesa nei confronti della mafia? Un simile atto penitenziale, illuminato dal martirio di don Puglisi, non avrebbe il sapore di una critica distruttiva, ma si trasformerebbe in manifestazione della potenza di Dio, che si rivela pienamente nella fragilità degli uomini. Offrirebbe al nostro tempo una prova ulteriore della realtà umano-divina della Chiesa la quale, in quanto umana è debole e peccatrice nelle sue membra, in quanto divina è sempre santa e madre di santi.
Sarebbe questo un modo efficace sia di mostrare la sincerità della conversione in occasione del Grande Giubileo del 2000, sia di dare continuità e voce alla testimonianza di don Puglisi, facendo così comprendere agli uomini distratti del nostro tempo che da quel chicco di grano, caduto in terra e morto sei anni fa, già sta germogliando la spiga.
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