Il coraggio mite del Profeta

di Padre Salvatore Danzì
(tratto da “Cieli Nuova Terra Nuova”
anno X -1 Novembre 2009)
per gentile concessione dell’autore

 La figura di padre Giuseppe Puglisi nel ricordo di un amico che scopre in lui la libertà dello spirito. Vibrante il ritratto dell’educatore che aiuta i giovani a scegliere la propria strada nel matrimonio o nel sacerdozio, in convento o nella società. A Brancaccio è missionario don Pino, capace di sfidare in nome del Vangelo “mezziuomini” armati dalla mafia.

Il vento, nella Bibbia, è spesso associato allo Spirito, alla profezia, che investe la storia di ieri e d’oggi. E allora ricordare il vento del Concilio significa domandarsi, oggi, come rendere attuale la profezia nella Chiesa, come lasciarsi interpellare e interpretare i Segni dei Tempi (espressione chiave del Vaticano II°) in un momento storico che presenta certamente difficoltà e motivi di confusione proprio per quanto riguarda la presenza della Chiesa nel mondo, la sua capacità di annunziare in modo efficace il Vangelo.

UN CENTRO PER CAPIRE SE STESSI

La memoria mi riporta a 40 anni or sono. Siamo a Napoli, 2 dicembre 1969, presso il collegio dei Padri Gesuiti a Fuorigrotta primo incontro per l’Italia del sud e delle isole Sardegna e Sicilia. Presiedeva mons. Carta, Vescovo di Sardegna, incaricato per la formazione del Centro Nazionale delle Vocazioni Sacre.
I gruppi di studio erano divisi per regioni. In quella circostanza ho incontrato e conosciuto tanti sacerdoti della Sicilia, ma senza volerlo, quasi per un’attrazione simpatica ho fatto subito confidenza con un sacerdote di Palermo, don Pino Puglisi, e così, parlando, mi ha detto che la sua mamma era di Piraino, della frazione San Costantino dove io, anni precedenti, ero stato parroco prima che il Vescovo mi chiamasse in Seminario a Patti.
Sono stati giorni intensi vissuti nella cordialità, ma soprattutto con un chiodo fisso: far decollare e formare il Centro Vocazioni sia in diocesi, sia nella regione e, di conseguenza, a carattere nazionale. Siamo stati incoraggiati soprattutto da quanto è emerso dal Concilio sui laici, questi sconosciuti, trattati (in termine calcistico) da cristiani di serie B o C.
Per fare questo era necessario smantellare il potere o la mentalità gerarchica ed elevare i laici per formare una comunità di credenti, vivi ed operanti, dove il vento che continua a soffiare imprime direzioni impensate a percorsi che hanno radici profonde.
Don Pino era convinto. A mio modo di vedere, anche quando è stato nominato Direttore Regionale delle Vocazioni Sacre ha cercato in tutti i modi di evidenziare l’importanza della sacralità di ogni ministero vocazionale, che intendeva mettere in risalto il valore della vocazione al sacerdozio comune che è di tutti: preti, religiosi, religiose, laici.
Si tratta di un sacerdozio reale, regale, profetico, in forza del battesimo che dà la capacità di fare della propria vita un’ offerta a Dio.
Il vero sacerdozio è quello comune, è il più importante, mentre il sacerdozio ministeriale dei presbiteri è un sacerdozio sacramentale, di mediazione.
E il segno della mediazione necessaria ed unica, voluta da Gesù, e questo è diverso.
E un sacerdozio che riempie di gioia chi lo accoglie come dono, chi lo vive soprattutto come servizio, per la crescita del sacerdozio comune. Il mio augurio è che molti giovani possano seguire con generosità questa chiamata di Gesù, seguire le sue tracce, realizzare la sua presenza. Tuttavia non è il predominio numerico che fa crescere la Chiesa, ma è la comunione, l’essere insieme, il lavorare insieme e mettere gli uni i propri compiti a servizio degli altri.

COSTRUIRE CON I LAICI

Ecco: far capire a tutti che nel ruolo dove ci troviamo dobbiamo svolgere la missione che Gesù ci ha affidato, di genitori, di insegnanti, di sacerdoti, di medici in tutti i ruoli e posti. E una forma di essere davvero cristiani efficaci nel mondo. Ecco la Chiesa nascente come nei primi anni del cristianesimo: piccole comunità che sappiano essere seme fecondo e testimonianza viva per la società. Sacerdozio comune e ministeriale sono due realtà volute da Cristo, entrambe collegate.
E quanto più collaborano, tanto meglio si realizza la comunione e la crescita della Chiesa e, quindi, della parrocchia. Certo un cammino difficile ma molto delicato. Soltanto la pazienza e la capacità di don Pino ci ha aiutato su questa strada. Sant’Ignazio di Antiochia diceva: si educa molto con ciò che si dice, molto di più con ciò che si fa, ancor di più con ciò che si è. Questa è una semplice, ma importante citazione che ci dà la chiave per capire sempre di più la figura di don Pino.
Ha assunto l’incarico di direttore regionale del Centro Vocazioni con grande disponibilità per rispondere alle necessità urgenti nella Chiesa di quel tempo.
Se non è certo possibile sintetizzare gli anni estremamente intensi per il Centro Regionale Vocazioni, ricchi di risultati, ma anche di fatiche e di sofferenze, è possibile cercare le parole per esprimere il Grazie enorme che il Centro e la Chiesa di Sicilia sentono di dovere a questo sacerdote instancabile e indomabile.
Siamo consapevoli che queste parole sono parziali ed insufficienti per dire cosa è stato don Pino per il Centro e per molti di noi, vogliono, però, essere testimonianza di “una compagnia nel Signore” nella quale siamo cresciuti insieme.
Grazie, don Pino, per la tua passione davvero ammirevole.
Di tutti forse è il tuo tratto più caratteristico quello che ci hai trasmesso nelle tantissime occasioni d’incontro, nel servire il Signore, il Centro Regionale, la Chiesa, nell’affrontare le fatiche ed i problemi, nel vivere i momenti di entusiasmo e gioia. E una passione che ha assunto il nome molto spesso di generosità: senza ma e senza se… pronto a dare e a dire per il Centro, per i laici, per la Chiesa.
Tutto ciò si è coniugato con una grande competenza.
Ha sempre cercato di fare ogni cosa con serietà, non lasciando niente al caso.
L’ho potuto apprezzare nel grande lavoro formativo che ha svolto.

UNA COLLABORAZIONE INDIMENTICABILE

Alcune delle intuizioni più felici di quegli anni portano la sua firma. E stata, la sua, una competenza poliedrica, come poliedrica è stata la sua figura. Una competenza che si è manifestata con determinazione ed intuito anche in riferimento a tante iniziative. Resta come ricordo, ma anche come stimolo oltre all’enorme mole di lavoro, la compagnia umana e spirituale come patrimonio personale da dovere continuare a vivere intensamente.
Di tutto questo, non che del bene che ha compiuto, ma noto solo al Signore, tutti ti siamo profondamente riconoscenti.
Non dimentichiamo, Don Pino, la tua passione per il Signore che è stata la base della tua generosità e competenza, sei stato segno di speranza in questo nostro tempo e in modo particolare nella Chiesa con tutte le contraddizioni e le complessità della vita odierna, ma anche con gli unici contesti nei quali pos­siamo cercare di santificarci.
Don Pino mi ha voluto come suo collaboratore nel Centro Regionale Vocazioni Sacre come rappresentante del clero diocesano.
Eravamo molto amici. Ricordo che ci siamo voluti bene.
Ricordo all’inizio di questo cammino le sfide delle giovani suore che cercavano, invogliate da questo soffio di vento, di ribellarsi contro una mentalità un po’, o molto, arretrata; e dei trattamenti subiti dalla loro Madre Superiora.
Ricordo pure le lotte di giovani frati contro il loro padre guardiano; le lotte dei giovani sacerdoti che volevano smantellare la mentalità arretrata del proprio vescovo, arroccato nel suo palazzo.
Certo un cammino difficile ma molto delicato. Soltanto la pazienza e la capacità di don Pino ci ha aiutato, e spero e credo, dopo tantissimi anni, non si debba ripetere questa mentalità in ogni convento, in ogni istituto religioso, in ogni diocesi perché lo Spirito deve soffiare fortemente.
Non potrò dimenticare come don Pino dinnanzi a certe situazioni soffriva e reagiva con dignità perché sapeva scavare nelle coscienze.
Ecco l’azione che Don Pino voleva imprimere al Centro Vocazioni con la sua visione promotrice, voleva mediare, tra la ribellione e la crescita, eliminando una mentalità di rottura all’interno della diocesi, convertendo vescovi e facendo crescere i preti, convertendo i responsabili degli istituti religiosi, dando alle suore e ai frati una visione di un cristianesimo vicino alle radici evangeliche e aperto alle sollecitazioni della vita odierna.
Ogni tentativo di imporre l’autorità della Chiesa è destinato al fallimento e, alla fine, risulta contrario allo spirito evangelico.
Diceva giustamente don Primo Mazzolari: Vi sono cose che si possono dire soltanto in ginocchio e piangendo, e chi riesce a dirle in questo modo non deve essere giudicato figlio meno devoto di colui che applaude soltanto.
E sempre don Primo Mazzolari dice: nessuna tristezza nostra può fermare l’amore di Dio per cui la Chiesa è Gesù pellegrinante sulla terra, prima di essere gerarchia, è il fuoco che accende tutti, la paternità che tutti abbraccia.
E non basta ripetere le parole eterne del Vangelo, dice sempre don Mazzolari, come non basta piantare dei Calvari se nessuno vi si lascia inchiodare insieme a Cristo.
Ecco l’impegno missionario e difficile e molto serio di don Pino all’inizio del Concilio Vaticano II.

PARROCO A BRANCACCIO

Padre Puglisi è stato nominato parroco a Brancaccio dove ha avuto inizio la sua più bella avventura che l’ha portato al martirio.
L’impegno in parrocchia viene considerato una conferma della sua conoscenza dell’animo umano, ma anche della sua sincera volontà di indicare ai lontani la strada del ritorno e di fare uscire il cristianesimo da posizioni di retroguardia.
La sua parola così ardente e penetrante, ascoltata da molti, ha lasciato in tanti uno spirito e una traccia, così profonda, così luminosa che non si può dimenticare. Don Pino parroco, prete dalla faccia d’angelo, che attirava tanta gente con i suoi discorsi, le sue prediche e, quello che era più importante, sottraeva i giovani al vivaio della mafia.
Sui muri si leggono gli slogan di don Pino: Chi usa la violenza non è un uomo; Se ciascuno fa qualcosa, allora si può fare molto; Mafiosi venite e pentitevi.
La mafia, sappiamo, è madre della prepotenza e figlia dell’ingiustizia, della povertà, della mancanza di prospettive, dell’assenza diffusa e quasi capillare dello Stato.
La mafia peggiore che si vive a Brancaccio porta il nome della disoccupazione, della carenza se non assenza di servizi di base essenziali, di spazi aggregati per i ragazzi.
Ha una organizzazione collaudata e una grande capacità di trasformarsi a seconda delle esigenze.
Al vertice non c’è mai una persona sola, ma persone intercambiabili che magari non si conoscono tra loro. Don Pino ha tentato di sottrarre alla mafia la sua materia prima: cioè la gioventù, priva di educazione e senza speranza.
L’hanno ammazzato perché stava diventando pericoloso. Non era un prete antimafia, come scrisse su “Avvenire” il 17 settembre 1993, Giovanni Bonanno.
Era un prete che cercava, lottando contro la radicalità sanguinaria, di strappare alla strada, alla disperazione, alla violenza, alla mafia, i ragazzi per farne uomini liberi.
Come parroco, consapevole dell’ignoranza voluta dalla mafia, voleva una scuola media a Brancaccio, voleva togliere il deposito negli scantinati in via Hazon, deposito di tanto materiale bellico, da dove partì il tritolo per la strage di via d’Amelio, fatale al giudice Paolo Borsellino.

A Brancaccio il quartiere di don Pino meritava e merita altra presenza da parte dello Stato, ma purtroppo l’assenza dello Stato non è un’immagine vaga: si vede, si tocca. Purtroppo avviene che lo Stato, formato dal centro o dalla destra o dalla sinistra, è assente e i giovani continuano ad essere disoccupati e in preda alla mafia.
Il suo spietato assassino ricorderà sempre il sorriso del prete santo, arma dolcissima e micidiale.

UCCISO DALLA MAFIA

Fin troppo bene sappiamo che mafia e religiosità compongono spesso un impasto paradossale nel lessico delle cosche.
I mafiosi sono religiosissimi, a loro modo osservanti: pensano di ammazzare in grazia di Dio, cioè con la coscienza a posto e senza rimorsi. L’ultimo giorno di padre Puglisi inizia partendo dalla parrocchia per andare all’appuntamento con la sua morte, come ben sa, Sr. Carolina Iavazzo, collaboratrice di don Pino e testimone della sua santità.
Scrive Candido Cannavo sul suo libro Pretacci (storie di uomini che portano il Vangelo sui marciapiedi): “all’improvviso un numero si agita nella mia mente, bello e sinistro: il 46. Non è il magico della trionfante moto di Valentino Rossi, ma sono i 46 omicidi che figuravano nel curriculum del killer, prima che i boss gli dessero -immagino per meriti conquistati sul campo -il mandato di uccidere il prete santo, inquietante, testardo, sorridente e pericoloso“.
Siamo la sera del 15 settembre 1993: don Pino, questa è una rapina. Il prete allarga le braccia e sorride: Me lo aspettavo. Partono i colpi, lui stramazza al suolo in un mare di sangue, sopravvive solo il suo sorriso. Don Pino, martire, è un segno perenne, ma oggi particolarmente è più eloquente della verità e dell’amore cristiano.
Ha annunziato il Vangelo dando la vita per amore.
Oggi più che mai, don Pino, è segno di quell’ amore più grande che compendia ogni altro valore.
La sua esistenza riflette la parola suprema pronunziata da Cristo sulla croce: Padre perdonali, non sanno quello che fanno.
Dal punto di vista psicologico il martirio è la prova più eloquente della verità della fede, che sa dare un volto umano anche alla morte più violenta, e manifesta anche la sua bellezza.
Per don Pino è stato sufficiente il suo sorriso perché ha lavato la sua veste rendendola candida con il sangue.
È stato, questo straordinario prete di frontiera un uomo di Dio che ha saputo ascoltare, con mitezza e con coraggio, l’invito di Gesù al servizio dei fratelli sino alla consumazione del martirio.

Don Salvatore Danzì

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