Don Pino Puglisi
Testimone coraggioso e fedele del Vangelo

di Maria Catena – intervista a Giuseppe Di Carlo, nativo di Godrano
pubblicato nel numero di ottobre/2017 di Theofilos

Don Giuseppe Puglisi, terzo di quattro fratelli, nasce a Palermo nel quartiere Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e di una sarta, viene ucciso dalla mafia nella stessa borgata il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno. Giovane adolescente decide di consacrare tutta la sua vita al Signore nel sacramento dell’Ordine ed entra in Seminario nonostante le difficoltà economiche affrontate dalla sua famiglia.

Dopo gli anni intensi del Seminario, viene ordinato sacerdote il 2 luglio del 1960, a 23 anni, e immediatamente gli vengono affidati diversi incarichi di responsabilità dai tre vescovi che si susseguono in quegli anni a Palermo: i cardinali Ruffini, Carpino e Pappalardo.

Sin dai primi anni del suo sacerdozio, Puglisi segue con attenzione i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati e poveri della città.

Il primo ottobre 1970 viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese in provincia di Palermo – segnato da una sanguinosa faida – dove rimane fino al 31 luglio 1978 riuscendo a riconciliare le famiglie coinvolte nella faida con la forza del perdono.

Padre Pino Puglisi, “3P”, nomignolo che gli attribuirono i suoi studenti, sapeva essere allegro e la sua gioia la comunicava col sorriso; dicono di lui che, ancor prima di vederlo arrivare, il suo sorriso lo precedeva.

Arrivato a Godrano, don Pino, u parrinu chi càvusi (come venne descritto al suo arrivo), porta un nuovo stile di vita, si rimbocca le maniche e comincia a lavorare instancabilmente.

La maggior parte degli abitanti del piccolo paese montanaro è costituito da pastori, solamente un piccolo gruppo di persone esercitano come liberi professionisti; anche questo dato è importante perché ci fa capire meglio qual è il contesto culturale con il quale don Pino dovrà confrontarsi. La parrocchia presentava non pochi problemi strutturali a causa di un terremoto, insomma la situazione che trovò il Beato Puglisi non era certamente delle più rosee, ma con l’aiuto di alcune persone del paese – i gruppi scout che invitava da Palermo, l’aiuto che non mancava mai da parte dei volontari della Presenza del Vangelo –, fece di tutto per coinvolgere la comunità e pian piano entrò nel cuore di tutti.

Si inserì a tutti i livelli, a scuola come insegnante, manteneva buoni rapporti col sindaco del Paese senza però confondere questa vicinanza con le aspettative che si potevano creare nei suoi confronti; durante il periodo elettorale, infatti, quando si presentava qualcuno con dei biglietti elettorali li metteva alla porta dicendogli, sorridendo, che avevano sbagliato indirizzo. Non bisogna dimenticare, inoltre, il dialogo che instaurò con la comunità evangelica presente a Godrano sin dagli anni cinquanta.

Il suo sforzo era quello di offrire una prospettiva più ampia ai piccoli e allora organizzava vacanze al mare, per molti bambini ancora sconosciuto; in parrocchia aveva avviato anche il doposcuola aperto a tutti i bambini sia cattolici che evangelici, un piccolo seme a favore del confronto e del dialogo sereno, di un’amicizia sincera; diceva che tutti erano figli dello stesso Padre.

Negli otto anni godranesi don Puglisi si impegna al massimo, la piccola chiesa di Godrano è sempre piena e il piccolo prete riesce ad abbattere le barriere innanzitutto dell’odio. Pian piano riesce ad avviare un dialogo con i protestanti, e l’ecumenismo del progetto conciliare diventa realtà. Lo slogan che ripeteva spesso era: «guardiamo ciò che ci unisce non quello che ci divide».

Proponiamo, adesso, ai lettori di “Theofilos”, l’estratto di un’intervista che si è svolta a Godrano nel maggio scorso, rivolta a Giuseppe Di Carlo, nativo di Godrano, sposato e padre di quattro figlie, che al tempo di padre Puglisi era uno dei ragazzi che frequentava assiduamente la parrocchia e faceva parte del gruppo dei giovani iniziato dallo stesso don Pino.

Giuseppe Di Carlo è cresciuto nella Chiesa Cattolica, ma all’età di vent’anni circa, dopo il trasferimento di 3P, ha attraversato un periodo di crisi e di allontanamento dalla Chiesa. Dopo un po’ di tempo si innamora di una ragazza evangelica del paese che diverrà sua moglie, in seguito, venendo a contatto con il pastore evangelico dai tratti spirituali molto coinvolgenti, come lo era stato in precedenza padre Puglisi, si è accostato alla comunità evangelica, entrandone a far parte, portandosi però dietro la bella e ricca esperienza che ha fatto nella sua giovinezza con Puglisi e gli altri ragazzi del gruppo parrocchiale.

Giuseppe, ci puoi raccontare la tua esperienza con don Pino Puglisi?

 Dopo padre Francesco Saglimbene, che era un omone alto un metro e ottanta, quando vedemmo arrivare padre Pino Puglisi, così minuto, pensavamo che lo avremmo preso in pugno, ma accadde esattamente l’opposto. Noi ragazzini, monellini, ci siamo abituati al suo rigore, insieme al quale c’era anche il divertimento: ci portava al mare per un mese e mezzo, a fare lunghe passeggiate nei boschi di Godrano, a Palermo per incontrare altri giovani e persone a lui legate. Andavamo presso la casa del fratello a fare le vacanze estive, in una località marittima. Eravamo una ventina di ragazzi, e la cognata di don Puglisi, con tanta pazienza si preoccupava di noi; non ricordo che abbia mai perso la pazienza. L’unica ricompensa che davamo alla famiglia che ci ospitava, finite le vacanze, era che se rompevamo qualcosa, com’è successo con un servizio di piatti, mettevamo 1000 lire ciascuno e ricompravamo quello che avevamo rotto. Per il resto era tutto a spese loro e di padre Puglisi.

 

I tuoi genitori e i genitori degli altri ragazzi vi mandavano così a lungo fuori casa?

 Si perché si fidavano di padre Puglisi, noi lo temevamo nel senso che ne avevamo rispetto, la sua parola era autorevole. Uno degli episodi che ricordo in questo momento, fu quando andammo a Palermo nel quartiere Brancaccio, la zona di padre Puglisi – noi sentivamo parlare delle cose brutte che avvenivano a Palermo – per partecipare ad un cenacolo organizzato dalla Presenza del Vangelo. Eravamo in autobus e sono saliti insieme a noi anche due malavitosi, potevano avere venticinque anni e sembravano male intenzionati, ma non capirono che padre Puglisi era un prete (vestiva infatti con i pantaloni, e non con la talare). Appena Puglisi ha capito la situazione, essendo di quella zona, gli si è messo davanti e sollevandosi sulle punte dei piedi, e guardandoli dritto negli occhi, si è rivolto a loro in dialetto siciliano: «scinniti» (scendete)! L’autista è rimasto esterrefatto, e ha esclamato: «chistu parrinu è?». Puglisi ha avuto questa prontezza di spirito, forse se non ci fosse stato lui sarebbe andata a finire male. Con padre Puglisi siamo cresciuti spiritualmente; anche ricevere i sacramenti (la prima comunione, la cresima…) non era l’esperienza di una routine, nel senso che ricevevamo una formazione diversa, profonda e completa. Con lui c’era anche l’aspetto esperienziale, e la parrocchia la sentivamo come la nostra casa. La permanenza di padre Puglisi fu d’impatto, perché cercava in tutti i modi di orientare l’attenzione della gente verso il significato più profondo della fede. Ricordo – a tal proposito – un episodio significativo. La mattina di Natale, con la chiesa piena di fedeli, padre Puglisi, durante l’omelia, rimproverò (provocatoriamente) tutti chiedendo se erano lì solo per sfoggiare i loro abiti. Questo richiamo arrivò persino alle orecchie del sindaco e poi anche del Vescovo, e padre Puglisi si difese dicendo che lui era così, non se la sentiva di prendere in giro il Signore. Disse al Vescovo: «Se mi vuole è così! Io devo fare le cose del Signore».

Con la Chiesa evangelica che rapporto aveva padre Puglisi?

 Con gli evangelici ha avuto diversi incontri, e spesso andava a trovare il loro pastore. C’è però anche da dire che in quel periodo storico c’erano problemi di incomprensione tra cattolici ed evangelici, ma padre Puglisi non si arrendeva, ed era riuscito ad instaurare un dialogo. Aveva stima di loro, in particolare del pastore, e li ammirava per il loro fervore. La stima era, ovviamente, reciproca.

Se dovessi sintetizzare i segni che padre Puglisi ha lasciato in eredità a Godrano e nella tua vita?

 Sono tanti i segni che ci ha lasciato: la schiettezza, il non fare compromessi a qualsiasi livello (e per questo lo hanno ammazzato), diceva che le cose di Dio non si possono barattare. L’onestà, la serietà, la fedeltà alla dottrina cattolica… Io, padre Puglisi lo sento sempre vicino, talvolta mi capita di sognarlo durante il sonno, e ne parlo anche con mia moglie. Ancora oggi vorrei fargli tante domande!

Secondo te, padre Puglisi cosa ti direbbe oggi sapendo che sei diventato evangelico?

[Giuseppe, dopo qualche attimo di silenzio risponde]. Secondo me, conoscendolo, mi direbbe: «È importante che tu incontri il Signore dovunque tu sia, se è questa la strada che ti ha fatto incontrare il Signore!». Questo, credo, mi direbbe.

Quale l’eredità che, secondo te, Puglisi ha lasciato alla comunità ecclesiale e non?

Il suo venire qui a Godrano è stato d’impatto, ha smontato dei tabù in tante famiglie e in noi ragazzi. Dialogava con tutti, ci ha aiutati a superare l’odio e il rancore, ad andare oltre ai segni dell’apparenza. A padre Puglisi piaceva la preghiera, anche quando andavamo al mare. Io, infatti, mi ricordo le Messe, più che il mare, perché è vero che ci faceva divertire ma era un tempo veramente evangelico.

In conclusione possiamo affermare che la vita e le opere di questo beato sacerdote è ricca di aneddoti attraverso i quali possiamo cogliere le qualità straordinarie che 3P ha maturato nel tempo: la sua umanità, la scelta prioritaria per il Vangelo, la sua correttezza, la fedeltà alla preghiera, in particolare all’Eucaristia, la semplice dedizione verso gli altri. Il Beato Giuseppe Puglisi ci insegna che «bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore. Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».