Pane e Vangelo
Mistero e ministero nel martirio di don Pino Puglisi
in «Oltre il muro» 2 (3/2004) pp. 36-43
di don MASSIMO NARO
Pane e Vangelo. Mistero e ministero nel martirio di don Pino Puglisi, in «Oltre il muro» 2 (3/2004) pp. 36-43. di Don MASSIMO NARO
L’Autore, sacerdote cattolico, teologo, è docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia S. Giovanni Evangelista e rettore del seminario di Caltanissetta.
«Don Puglisi ossia vangelo contro mafia»: così m’è capitato di sentir dire da qualche commentatore della vicenda martiriale di don Pino. Una tale espressione, vuoi o non vuoi, a mio parere instrada verso un’interpretazione non corretta di tale vicenda.
Secondo me don Puglisi tutto può essere stato tranne che un prete “anti”-mafia. Come pure il vangelo: tutto può essere tranne che un’arma da usare “contro”. Esso è stato annunciato sempre non “contro” ma “ai” peccatori. Per la loro salvezza e non per la loro condanna, come ha detto Gesù stesso. Penso che la frase appena ricordata non aiuti a capire tutto questo. E non aiuti a capire ciò che ho tentato di balbettare sul valore e sul senso dell’impegno civile di don Puglisi e sul suo martirio. Io sono convinto che valga per don Puglisi ciò che vale per ogni prete. Spesso si parla del “ministero” del prete, del ruolo cioè che il prete ha nel vissuto pastorale della parrocchia o, più generalmente, nella società. Si parla, insomma, di ciò che il prete fa, di ciò che deve saper fare. Ed è un discorso importante. Ma quando ci si ferma solo a questo livello del discorso sul prete si rischia di averne poi una concezione e una comprensione dimidiata, solo funzionalistica. Al discorso sul ministero si deve sempre accompagnare il discorso sul “mistero”. Ossia al discorso sull’orizzonte umano in cui si colloca la figura e l’operato del prete, fratello tra i fratelli, si deve accompagnare la riflessione sull’orizzonte in cui trova davvero origine la sua esistenza e la sua missione, l’orizzonte in cui il prete sta al cospetto di Dio, incrocia il suo sguardo e vede il mondo, in cui pur è inviato come prete, con gli occhi stessi di Dio.
È in questo senso che mi colpisce l’appello alla conversione che don Puglisi non cessò mai di indirizzare ai mafiosi del suo quartiere: in una predica nella sua chiesa di San Gaetano del 20 agosto 1993, ormai vicino il fatidico 15 settembre in cui fu ucciso, ribadendo la sua condanna contro la violenza dei boss che taglieggiavano e intimidivano la gente di Brancaccio, don Pino disse anche che costoro erano persone battezzate a San Gaetano e che perciò rimanevano pur sempre «figli di questa chiesa». Come ammette pure Bianca Stancanelli nella sua biografia di don Pino (intitolata: “A testa alta”), fu questo un appello alla conversione, fu un annuncio di speranza cristiana rivolto anche ai più incalliti peccatori, che però venne frainteso come una minaccia in codice, come un messaggio trasversale per dire ai mafiosi che il parroco conosceva i loro nomi e che si preparava a colpirli. E tutto ciò portò i boss di Brancaccio a decretare la condanna di don Puglisi. Fu un abbaglio che indusse quei mafiosi a percepire solo la denuncia delle loro malefatte e non pure l’annuncio della loro possibile redenzione.
Penso che forse questo tragico malinteso serpeggi ancora, anche tra gli osservatori di parte ecclesiale. Soprattutto se questi cedono alla tentazione di dissociare la denuncia dall’annuncio, il ministero dal mistero, l’impegno civile dall’ispirazione evangelica. Se don Puglisi avesse praticato questa dissociazione non sarebbe stato l’umile parroco di Brancaccio, ma un coraggioso assistente sociale. Non sarebbe stato un martire cristiano, ma un eroe ucciso dai suoi nemici. Sarebbe stato ugualmente un grande testimone. Ma forse non un testimone del vangelo».
Secondo me don Puglisi tutto può essere stato tranne che un prete “anti”-mafia. Come pure il vangelo: tutto può essere tranne che un’arma da usare “contro”. Esso è stato annunciato sempre non “contro” ma “ai” peccatori. Per la loro salvezza e non per la loro condanna, come ha detto Gesù stesso. Penso che la frase appena ricordata non aiuti a capire tutto questo. E non aiuti a capire ciò che ho tentato di balbettare sul valore e sul senso dell’impegno civile di don Puglisi e sul suo martirio. Io sono convinto che valga per don Puglisi ciò che vale per ogni prete. Spesso si parla del “ministero” del prete, del ruolo cioè che il prete ha nel vissuto pastorale della parrocchia o, più generalmente, nella società. Si parla, insomma, di ciò che il prete fa, di ciò che deve saper fare. Ed è un discorso importante. Ma quando ci si ferma solo a questo livello del discorso sul prete si rischia di averne poi una concezione e una comprensione dimidiata, solo funzionalistica. Al discorso sul ministero si deve sempre accompagnare il discorso sul “mistero”. Ossia al discorso sull’orizzonte umano in cui si colloca la figura e l’operato del prete, fratello tra i fratelli, si deve accompagnare la riflessione sull’orizzonte in cui trova davvero origine la sua esistenza e la sua missione, l’orizzonte in cui il prete sta al cospetto di Dio, incrocia il suo sguardo e vede il mondo, in cui pur è inviato come prete, con gli occhi stessi di Dio.
È in questo senso che mi colpisce l’appello alla conversione che don Puglisi non cessò mai di indirizzare ai mafiosi del suo quartiere: in una predica nella sua chiesa di San Gaetano del 20 agosto 1993, ormai vicino il fatidico 15 settembre in cui fu ucciso, ribadendo la sua condanna contro la violenza dei boss che taglieggiavano e intimidivano la gente di Brancaccio, don Pino disse anche che costoro erano persone battezzate a San Gaetano e che perciò rimanevano pur sempre «figli di questa chiesa». Come ammette pure Bianca Stancanelli nella sua biografia di don Pino (intitolata: “A testa alta”), fu questo un appello alla conversione, fu un annuncio di speranza cristiana rivolto anche ai più incalliti peccatori, che però venne frainteso come una minaccia in codice, come un messaggio trasversale per dire ai mafiosi che il parroco conosceva i loro nomi e che si preparava a colpirli. E tutto ciò portò i boss di Brancaccio a decretare la condanna di don Puglisi. Fu un abbaglio che indusse quei mafiosi a percepire solo la denuncia delle loro malefatte e non pure l’annuncio della loro possibile redenzione.
Penso che forse questo tragico malinteso serpeggi ancora, anche tra gli osservatori di parte ecclesiale. Soprattutto se questi cedono alla tentazione di dissociare la denuncia dall’annuncio, il ministero dal mistero, l’impegno civile dall’ispirazione evangelica. Se don Puglisi avesse praticato questa dissociazione non sarebbe stato l’umile parroco di Brancaccio, ma un coraggioso assistente sociale. Non sarebbe stato un martire cristiano, ma un eroe ucciso dai suoi nemici. Sarebbe stato ugualmente un grande testimone. Ma forse non un testimone del vangelo».
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