XVIII ANNIVERSARIO |
- Il brano evangelico di questa memoria liturgica della Beata Vergine Maria Addolorata ci ha riportato al toccante momento della Croce: da una parte, Gesù dona alla madre il “discepolo che egli amava“, che la tradizione ha identificato con Giovanni – “Donna, ecco tuo figlio!” – e di seguito, a Giovanni, egli dona sua madre Maria – “Ecco tua madre!” – .Una duplice consegna. Sul Gòlgota Maria riceve Giovanni nel suo cuore, come figlio, e in lui riceve tutti noi. E Giovanni accoglie Maria con sé, fra le sue cose, così come noi tutti siamo chiamati a fare.Ma, poiché la tradizione ha descritto Giovanni come il più giovane fra gli apostoli, lasciatemi immaginare che nella consegna di Gesù si possa intravedere un’altra duplice particolare consegna.Da un lato la consegna dei giovani alla Chiesa che è Madre e che ha il dovere di educare i suoi figli più preziosi alla fede e alla vita. Dall’altro la consegna del futuro della Chiesa ai giovani. Essi non sono semplicemente “la speranza della Chiesa”, come fossero una sua aggettivazione opzionale: essi – come amava definirli il Beato Giovanni Paolo II – sono “la Chiesa giovane che spera“, cioè coloro che, nel presente, già sono Chiesa in cammino verso quello stesso futuro per la cui costruzione sono parte integrante e privilegiata.
- Questa duplice consegna avviene nel momento doloroso della Croce. Iuxta Crucem – vicino alla Croce – percepiamo il dolore, ma guardiamo oltre, e ci apriamo ad una fecondità tutta particolare: è la chiave di lettura della Pasqua di Cristo. È la chiave di lettura di ogni pasqua.Anche di quella di Padre Pino Puglisi. Come non vedere che in Padre Pino – a diciotto anni dal suo barbaro assassinio per mano mafiosa – dolore e fecondità continuano ad intrecciarsi? È quella immagine evangelica da lui stesso più volte ricordata: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Di questa fecondità ha parlato, nell’ottobre scorso, qui a Palermo, il Santo Padre Benedetto XVI, descrivendo Padre Puglisi: “aveva un cuore che ardeva di autentica carità pastorale; nel suo zelante ministero ha dato largo spazio all’educazione dei ragazzi e dei giovani, ed insieme si è adoperato perché ogni famiglia cristiana vivesse la fondamentale vocazione di prima educatrice della fede dei figli“.Illuminati dalle parole consegnateci dal Papa, sulla scorta degli Orientamenti pastorali CEI per il nuovo decennio, e alla vigilia di un nuovo anno pastorale che vedrà la nostra comunità diocesana impegna a riflettere sul come Educare i giovani alla fede“, desidero guardare al Servo di Dio come testimone esemplare di una Chiesa che accompagna ed educa i giovani al tesoro dell’incontro con Cristo e alla vita buona e nuova del Vangelo.Per questo vorrei soffermarmi con voi su tre coordinate che hanno caratterizzato il ministero di Padre Pino quale educatore dei giovani, accompagnatore e formatore di coscienze, sacerdote in ascolto delle loro esigenze e de loro interrogativi.
- La prima coordinata. Mi pare che Puglisi abbia innanzitutto incarnato il tratto di un “padre” e che – con la sua carità pastorale – abbia proposto sempre uno stile di autentica paternità.Soprattutto a Brancaccio, egli trovò un tessuto ferito dalla mancanza di un sereno contesto familiare per i giovani. Nelle famiglie di origine le carenze erano enormi in termini di degrado culturale, morale, sociale. I bambini e i giovani di Brancaccio avevano le spalle “scoperte”, erano esposti a figure di una “paternità” falsa e meschina, che anziché renderli autonomi nella loro coscienza tentava di schiavizzarli con uno stile di vita disonesto. Una “paternità” che faceva rima più con “illegalità” che con “dignità”.In una relazione del febbraio 1993 (Chiesa e mafia: la cultura del servizio e dell’amore contro la cultura del malaffare) Padre Pino Puglisi scriveva: “I primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti. Con loro siamo ancora in tempo, l’azione pedagogica può essere efficace, con gli adulti è invece tutto più difficile“. Parlava dei rischi dei bambini “costretti a lavorare o a rubare“, dei casi di prostituzione minorile nel quartiere, e – soprattutto – del consenso di gruppo che queste generazioni erano spinte a cercare in un simile contesto sociale: “È quello che la mafia chiama ‘onorabilità’. Per questo bisogna unirsi, dare appoggi esterni al bambino, solidarietà, farlo sentire partecipe di un gruppo alternativo a quello familiare“.Puglisi entrò in questo tessuto, e comprese lo stile impegnativo della “paternità”… Uno stile che non gli servì per esser protagonista, ma solo per manifestare un altro Padre. Un Padre che non era suo soltanto, né dei pochi che pensavano di meritarselo… Con il suo stile pastorale, con il suo impegno educativo, Padre Pino rese presente il “Padre nostro”.Di “nostro” – egli intendeva dire – non ci può essere una “cosa” che si impone a tutti anche se tutti fanno finta di non vederla né possederla… Di “nostro” c’è un “Padre” che si dona: riconoscersi suoi figli – finalmente – non ha costi, conseguenze, pericoli.Padre Pino cercò di partire da questo “Padre nostro”, per ridare a suoi giovani la dignità di figli di Dio con uno stile di delicata paternità attraverso cui conobbe i suoi figli.E realizzò il “Centro Padre Nostro”, ravvisando, insieme ai suoi parrocchiani, il bisogno del quartiere, come emerge dal testo della lettera inviata alla Curia Arcivescovile con la deliberazione del Consiglio per gli Affari Economici della parrocchia “San Gaetano – Maria SS. del Divino Amore”: “Non è più rinviabile – si legge – l’esigenza di acquisire dei locali da destinare in uso ad una congregazione religiosa femminile che si occupi, nell’ambito della zona di pastorale, di servizio agli ultimi, di pastorale sociale, e principalmente di catechesi e di evangelizzazione“.
Il “Centro Padre Nostro” fu pensato come risposta educativa indirizzata soprattutto ai poveri, ai bambini e ai giovani, ancorata saldamente ad una motivazione di paternità alternativa da offrire per creare dignità e futuro da veri figli di Dio. Le sue parole: “La casa di accoglienza ponendosi come promanazione di quella che è la nostra identità di cristiani, assume la connotazione di un centro sociopastorale“. Un centro di servizio sociale e di pastorale parrocchiale insieme, che consentisse ai credenti di Brancaccio di vivere il mandato consegnato da Cristo, la “missione al servizio della persona nella sua totalità“.
Uno stile missionario da sposare nella nostra pastorale al servizio dei giovani. Di missionario, più che il volto dobbiamo sforzarci di avere il cuore, con quell’entusiasmo di paternità che possa mettere in moto tutti i mezzi in cui l’annuncio e l’accompagnamento della Chiesa possono farsi presenti alle nuove generazioni.
Guai se la nostra Chiesa non riprende ogni giorno a pensare in termini di paternità/maternità, ossia se non si proietta in avanti con cammini nuovi che mettono in cantiere la promozione e la crescita delle nuove generazioni. Pensare in termini di conservazione è già perdere l’appuntamento con i nostri giovani.
- La seconda coordinata. Mi pare che l’altro aspetto, profondamente legato a questo stile missionario, fu il suo legame con il territorio. E questo a Godrano come a Brancaccio, dove, in particolare, erano altri che cercavano il controllo del il territorio per, per comprarlo palmo a palmo, per colonizzarlo silenziosamente.Puglisi cercò il contatto con i giovani di quel territorio. Gli stessi bar, le stesse strade, le stesse conoscenze, gli stessi odori, le stesse voci… Puglisi entrò nel territorio, portando sulle strade la testimonianza di quella ricchezza di vita sacramentale alimentata nel tempio. Uscendo – a detta di qualcuno – troppo fuori dal tempio.In questo non si sentì mai “speciale”. La sua opera pastorale si volgeva naturalmente al territorio: per Padre Pino fu sempre chiara l’idea della parrocchia come “Chiesa che vive tra le case degli uomini” che tenti di bussare a queste case con la proposta di un Vangelo incisivo e liberante che parla con chiarezza di novità di vita.Puglisi non ci stava proprio ad una pastorale esclusivamente devozionale-sacramentale, chiusa nel tempio. Ed ecco la missione, ecco il collegamento con il volontariato presente nel territorio, con i comitati di quartiere, con il comitato intercondominiale. Per conoscere bene i bisogni non esitò a farsi aiutare dalle Assistenti Sociali Missionarie, affidando loro un lavoro capillare di censimento, di rilevamento delle povertà. Siamo nel 1990! Della sua chiesetta di Brancaccio conosceva anche gli angoletti più nascosti. Ma era di quel territorio che egli voleva conoscere e capire. Per poter proporre, agire, andare…Cercò i giovani di quel territorio… Prevalentemente quelli che in chiesa non entravano. Che avevano altre liturgie da celebrare…Il suo stile missionario si aprì naturalmente al territorio: pensiamo alle nostre parrocchie, spesso isole felici che poco o niente si collegano alle realtà territoriali, alle problematiche emergenti, ai bisogni del tessuto parrocchiale in cui sorgono.Appare sempre urgente il ripensamento di una pastorale incarnata nel vissuto: perché di fronte agli spiritualismi astratti sono soprattutto i giovani – bisognosi di maggiore concretezza – a prendere le distanze.
- La terza coordinata. Nella sua missione nei confronti dei giovani, Padre Pino Puglisi credette fino in fondo nella coralità degli interventi, e nella comunione, principio di tale coralità.Si sentì sempre spinto a cercare la collaborazione di una molteplicità di soggetti che proponessero un lavoro con i giovani, in una condivisione della medesima ansia evangelizzatrice ed educatrice nei loro confronti. Fu soprattutto nell’ambito del lavoro del Centro Diocesano Vocazioni che, uscendo fuori dallo schema di “reclutamento sacerdotale” si avvalse di una equipe ampia, costituita di proposte vocazionali diverse.Per il bene dei giovani di Brancaccio, poi, bisognava orientare tutte le forze buone, farle convergere insieme, unificarle, non per appiattire la proposta ma per creare quella pastorale sinfonica che potesse valorizzare l’esistente. Non era tempo di fare gli schizzinosi. Era lo stile che il Concilio Vaticano II gli aveva trasmesso, e sul quale la Chiesa di Palermo si era confrontata in quegli anni, circa la sfida di una ministerialità nel territorio.Lavorò sempre per la comunione, sperimentandola e facendola sperimentare nello stesso modo di lavorare. Che sfida! Non soltanto per noi presbiteri, ma per tutti! Troppo spesso presi dalla “sindrome del salvatore“! Autoreferenziali sia nelle proposte che nelle preoccupazioni! Qualcuno ha parlato di “donchisciottismo ecclesiale… Camminare da soli perché si farà sempre meglio, perché si avranno più risultati. E alla fine quanta solitudine! La solitudine del “chicco di grano” che non si decide a morire, che apparentemente porta frutti di efficienza, ma che non germoglia in frutti di comunione vera, godibili e condivisibili.Sta a noi tutti convincerci che camminare insieme non può essere un desiderio diocesano calendarizzatoda incontri o occasioni, ma una necessità che viene dalla comune missione alla quale siamo chiamati tutti.In questo dovremmo tutti lasciarci convertire di più!Si tratta di un investimento. Ma l’analisi costibenefici suggerisce di tentare comunque: ciò che possiamo perdere è ampiamente ripagato da quanto guadagniamo in termini di umanità e testimonianza credibile.
- Nell’ottobre scorso, il Papa ha indicato Padre Puglisi ai giovani come “padre e fratello nella fede“. Paternità e fraternità dicono comunque – in modo diverso – accompagnamento costante nella crescita dei nostri giovani, nell’educazione dei giovani e nel loro futuro.Da Padre Pino Puglisi impariamo a lasciarci interpellare per un futuro della nostra Comunità Diocesana che sia fecondo nella trasmissione della fede alle nuove generazioni.Ci sia di aiuto la Vergine Maria, che ancora oggi, Madre della Chiesa, accompagna i giovani nelle loro ricerche e nei loro itinerari, per aprire loro gli orizzonti della Pasqua del suo figlio Gesù.
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