UN PROFETA, UN MARTIRE, LA REDENZIONE:
Alla luce del sole di Roberto Faenza
di LLOYD BAUGH
Padre Gesuita, studioso di cinematografia
e docente presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma
da Consacrazione e Servizio, Anno LIV n. 6 Giugno 2005
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno… e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate… Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi. Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo…
(Mt 5,11-14)
Il nuovo film di Roberto Faenza, Alla luce del sole, si snoda su due registri, propone il suo significato su due livelli. Prima, rappresenta le vicende storiche di don Pino Puglisi, palermitano, sacerdote-parroco, ferocemente assassinato dalla mafia nel 1993, nell’ultimo tenebroso capitolo di una lunga stagione di terribile violenza. (L’anno precedente, sono stati brutalmente assassinati in Sicilia i giudici Falcone (a Capaci, il 23 maggio) e Borsellino (a Palermo, il 19 luglio). Il 9 maggio 1993, Giovanni Paolo TI, in visita pastorale ad Agrigento, ha fortemente condannato la violenza mafiosa, gridando: «Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Pochi giorni dopo, la mafia ha lanciato la sua risposta violentissima, con bombe esplose a Roma e a Firenze, e il 27 luglio, un’altra bomba a Milano e due a Roma. Meno di due mesi dopo, il 15 settembre, proprio il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, hanno colpito don Puglisi.)
Su questo livello, il film rispetta notevolmente i fatti storici, basandosi sulle precise testimonianze di cronaca e dei più stretti collaboratori di Puglisi nella parrocchia di Brancaccio, una zona periferica di Palermo. Ma poi, su un secondo livello, dietro le vicende storiche e concrete della sua narrazione, il regista rappresenta una splendida storia di redenzione, che riflette, in modo evidente e sottile, la storia cristiana della redenzione.
Faenza inizia il suo racconto filmico, in forma lineare e scorrevole, con l’arrivo di don Pino nella terra arsa e abbandonata del Brancaccio, come parroco della stessa comunità nella quale è nato e cresciuto. Diverse volte il sacerdote sottolinea queste sue origini come garanzia della sua sincerità e credibilità e anche del sogno che offre alla sua gente di un altro modo di vivere, libero dalla paura, dalla criminalità, dalla mafia e dalla cultura mafiosa.
Diffidenza, paura, coraggio e speranza
La gente, sotto il controllo e la minaccia dei boss locali, è diffidente; ben tre volte nel film, in momenti critici dell’attività di don Pino, Faenza inquadra in primo piano la finestra dell’appartamento di due vecchiette mentre chiudono le persiane, isolandosi dentro e abbandonando il parroco, solo, nella piazza. La ripresa diventa metafora agghiacciante della oscura tradizione di omertà che permette alla mafia di dominare la gente del Brancaccio, e della corrispondente missione difficile di don Pino di portare liberazione a queste persone.
Nonostante la diffidenza degli adulti, e grazie all’allestimento di un piccolo campo sportivo, don Pino recupera dalla strada, e dalle mani della malavita, un gruppetto di ragazzini ai quali insegna le prime lezioni sull’onestà, la legalità, la fiducia in se stessi, il diritto di vivere liberi e di sognare. Se da una parte, il parroco incontra vari elementi di opposizione i primi tentativi di corruzione, il silenzio e la non-cooperazione delle autorità civili — dall’altra, accoglie in parrocchia tre suore e poi un seminarista, coraggiosi ed energici quanto lui, che diventano per lui una fonte di speranza. Anche i bambini e i ragazzi della parrocchia sono per don Pino una fonte di forza ed energia. Giusta e doverosa è la scelta del regista di presentarlo più volte in mezzo ai ragazzini e con un bambino piccolo in braccio: viene in mente l’iconografia della Madonna col bambino o del Buon Pastore. In una strategia morale di valenza cruciale, Faenza fa spiccare dal gruppo tre ragazzi, che sono particolarmente vicini e cari a don Pino, l’inizialmente durissimo Saro, salvato dal carcere; Domenico, il ragazzo più travagliato di tutti che poi accompagna don Pino fino alla sua morte; e il piccolo Carmelo, il discepolo prediletto di don Pino, al quale verrà conferita una singolare grazia.
Le dure fatiche di don Pino portano i primi frutti: l’apertura di un centro di accoglienza per i bambini del Brancaccio, che li sottrae alla strada e al controllo della mafia; l’organizzazione delle donne del quartiere e una raccolta di firme per giustificare le richieste di servizi alle autorità civili; e poi, evento tanto simbolico quanto concreto, la festa del patrono della parrocchia, che diventa per la povera gente del quartiere un’orgogliosa dichiarazione di indipendenza dal potere tenebroso della mafia.
Il lato oscuro della festa
Faenza però conferisce alla festa di san Gaetano anche un lato oscuro: nella sua pianificazione, infatti, ne fa il motivo del primo scontro diretto con i boss locali, e nel suo svolgimento, tramite un montaggio parallelo e alternante, rende lo scontro letteralmente esplosivo. Contemporaneamente alla processione popolare per le strade di Brancaccio — don Pino dirige per microfono i canti devozionali — Faenza ci fa vedere, nel giardino lussuoso della villa blindata dei boss latitanti, la festa “tradizionale”, presieduta da un cantante “di una famiglia importante,” e da una collezione velenosa di malavitosi. Quando il boss regionale commenta: «Dicono che il nuovo parrino non porta rispetto. Parla, sparla … Vedete quello che potete fare…», la minaccia è palpabile e già si intuisce la fine tragica di don Pino.
Poco dopo, le forze del male si scatenano contro i giudici antimafia Falcone e Borsellino; e don Pino, pur riconoscendo il rischio, alza il tiro. Quando la raccolta di firme portata al comune non ottiene le dovute azioni contro le attività illegali in zona e le dovute riforme a favore della gente, il parroco porta la sua lotta in televisione. Allora, i mafiosi locali rispondono con più dirette intimidazioni, incluso un atto di feroce violenza contro don Pino, ma il parroco non molla, organizza, invece, una manifestazione di resistenza e, durante la Messa, portando ancora sul suo volto i segni della violenza, lancia una sfida agli uomini d onore perche cessino di usare la violenza: un appello profetico dal quale prende titolo il film: «Voi, che siete abituati ad agire nell’ombra, se siete ancora uomini fatevi vedere alla luce del sole».
L’atmosfera attorno a don Pino diventa sempre più cupa ed egli, con il seminarista Gregorio, ammette di avere paura, aggiungendo che «viene un momento nella vita in cui uno deve prendere una decisione, e io l’ho presa…». Poco dopo, gli stessi tre “picciotti”, che avevano picchiato don Pino, lo ammazzano davanti alla sua casa e “alla luce del giorno”. E’ una morte annunciata, alla quale il parroco cede con coraggio e autorità morale, dicendo semplicemente: «Vi aspettavo!»
Un film costruito bene
La forza morale del film di Faenza è dovuta, in parte, al suo contenuto, ai fatti veramente accaduti che racconta, e al personaggio del tutto coerente di don Pino Puglisi. Ma è dovuta anche alla capacità notevole del regista di costruire bene il suo film, con una serie di decisioni formali, stilistiche, che modulano il racconto.
Una di queste decisioni formali è quella di iniziare il film con un prologo in più scene: scene di un realismo spinto ma che hanno, soprattutto, un valore simbolico, un tono e un significato forte che sanno creare una cornice morale efficace attorno alla narrazione dell’intero film. Nella prima scena, infatti, un gruppetto di ragazzini, in seguito diventeranno seguaci di don Pino, vendono per pochi soldini delle cassette piene di gattini a un malavitoso e poi li danno in pasto a feroci cani affamati. Segue una scena notturna di combattimento di cani, in mezzo a un gruppo di scommettitori, che incoraggiano la crudele lotta. Finita la carneficina, i ragazzini buttano giù il cane moribondo dal piano superiore di un palazzo mai finito. In queste terribili scene, emblematiche della vita quotidiana nell’inferno del Brancaccio e della alta “densità mafiosa” sotto la quale si vive, Faenza dà un preciso senso della feroce illegalità e immoralità dalle quali i ragazzini devono essere salvati; il cane moribondo, sdraiato sanguinante nella piazza, rappresenta un’agghiacciante icona del martirio di don Pino, col quale il regista chiuderà il film.
Un altro notevole pregio formale di Alla luce del sole è la grande economia con la quale Faenza gira e monta il film. Nella narrazione efficace e incisiva — che echeggia l’energia del parroco e l’urgenza della missione — i due anni della missione di don Pino a Brancaccio passano velocemente. Faenza mette a fuoco solo alcuni momenti di particolare spessore umano e morale, sia per il male che avanza sempre più minaccioso attorno al sacerdote, sia per il bene che si esprime in lui e nei ragazzi, ai quali offre la speranza. Per esempio,
66 della lunga campagna antimafia gestita in televisione dal don Pino storico, Faenza rappresenta solo pochi secondi, per evidenziare la feroce reazione dei boss mafiosi; il regista preferisce farci vedere la dinamica del contatto diretto tra il protagonista e i suoi ragazzi. Per di più, Faenza fornisce pochi parametri cronologici nella sua narrazione (Sono il 7 agosto, la festa di san Gaetano — la logica della narrazione suggerisce il 1991 — e le date degli assassinii dei giudici Falcone e Borsellino.) infatti, il tempo nel film rimane piuttosto astratto: una breve stagione di grazia, una serie di kairos per il bene in mezzo a tanto male.
La centralità dei bambini
Nel suo racconto accelerato, il regista si concentra soprattutto sui protagonisti privilegiati, cioè don Pino e i suoi ragazzi: “i bambini di Palermo”, ai quali Faenza dedica il film nel primo titolo di testa. Tutti gli altri personaggi del film — quelli della luce: suor Carolina e il seminarista Gregorio; e quelli delle tenebre: i malavitosi piccoli ed importanti — appaiono e agiscono in funzione delle reazioni che suscitano in don Pino e nei ragazzi. La scelta formale di rappresentare don Pino quasi sempre circondato da bambini, la decisione di fare spiccare drammaticamente gli incontri e i dialoghi, di solito forti, tra il parroco e uno o più ragazzi — bello e di grande originalità e forza morale è l’episodio della prima lezione di religione che don Pino tiene al liceo — sottolineano questa centralità dei bambini nella missione di don Pino.
Nella lunga tradizione filmica di preti buoni e bambini bisognosi, si verificano spesso degli eccessi sentimentali; questo è un errore al quale Faenza non si avvicina nemmeno. In questo film, infatti, i bambini non sono né carini né gentili; nei contatti e nelle conversazioni del parroco con loro, Faenza non permette a don Pino di scivolare nel kitsch emozionale; traduce, invece, l’amore profondo del parroco in parole e gesti che hanno come unico scopo la liberazione, la maturazione morale e civica dei ragazzi.
Altra decisione ispirata e formale di Faenza è di mettere Luca Zingaretti nei panni del suo protagonista. La scelta dell’attore conosciutissimo, identificato nella mente popolare soprattutto con un siciliano molto diverso: l’ispettore Montalbano, della fiction televisiva omonima, è rischiosa, ma sia Faenza che Zingaretti gestiscono molto bene la dinamica. Il mondo duro, scuro, in sfacelo del Brancaccio non ha nulla a che fare con la Sicilia teatrale di Montalbano, tutta facciate barocche, spiagge bagnate dal sole e mare azzurro, giardini secolari e aranceti d’oro. Il pratico, realistico e molto umano pastore don Pino, che ha bisogno di aiuto e che ammette le sue paure, interpretato con ascesi drammatica da Zingaretti, non ha nulla a che fare con l’affascinate e divertente personaggio letterario, del tutto fittizio, mitico, uscito dai romanzi di Andrea Camilleri.
Nessun eccesso clericale
Faenza evita bene anche un altro scoglio del cinema su preti e chiesa, cioè, la tendenza verso il clericalismo. Don Pino esprime la sua autorità morale e spirituale nell’onestà e
nella serietà del suo impegno per il popolo di Dio del Brancaccio, nel coraggio col quale affronta gli ostacoli più pericolosi, nella creatività con la quale trova soluzioni a problemi mai immaginati in seminario. Non indossa mai la veste talare — un’icona di rigore nel cinema di preti — e poche volte il clergyman; quando trova la chiesa vuota per la Messa,
esce dalla chiesa, un gesto chiaramente simbolico, e celebra la Messa in piazza. La chiesa del Brancaccio, infatti, diventa rifugio dei poveri ed abbandonati, luogo di opere di carità,
cattedra di giustizia e speranza per tutti. Nelle sue rappresentazioni della Messa, Faenza mette a fuoco non tanto i misteri arcani ai quali il prete presiede, quanto la parola di Dio che don Pino proclama con profetica eloquenza. Quando il sacerdote prega, non sono formule canoniche ma invocazioni carismatiche, fatte in privato, con poche parole e tanta convinzione.
Al rapporto tra don Pino e suor Carolina e le sue due compagne, Faenza conferisce una tranquillità, un’onestà, un equilibrio alquanto rari nel cinema contemporaneo, che purtroppo tende a favorire o le caricature della dominazione maschilista del sacerdote e della sottomissione sorridente ma passiva delle suore, oppure la tensione affettivo-sessuale e l’analisi psicologica. In Alla luce del sole non si sente né la psicologia né il minimo sottotesto sessuale: la conversazione intensa tra don Pino e suor Carolina, sull’esperienza di vocazione, è di una rara bellezza e maturità cristiana.
L’importanza morale dell’umorismo
Una dimensione importante del film è il modo sottile nel quale Faenza introduce diversi momenti di lievità nella sua narrazione. In un film su un martirio, che ha come ambientazione le tragiche vicende della comunità di Brancaccio e che si muove inesorabilmente verso il brutale assassinio di don Pino, il sottile ruolo dell’umorismo è cruciale per modulare la serietà del film e per dare un volto umano agli eventi rappresentati.
I tocchi umoristici di Faenza non stonano mai con la narrazione, ma esprimono una bella sintonia con essa; non né un aggiunto artificiale e artificioso né un’espressione di ironia.
L’ umorismo del film e una funzione del livello di fiducia che cresce tra i protagonisti; il nostro sorridere, o addirittura ridere, è una reazione di empatia con i personaggi, in momenti profondamente umani. All’inizio del film, per esempio, Faenza mantiene un’assoluta serietà per ciò che riguarda don Pino e i ragazzi; tra di loro regna prima un’antipatia, poi una tensione e, in seguito, un’incerta tregua. Però, a mano a mano che cresce la confidenza tra i ragazzi e il “parrino,” quando essi sentono di potersi fidare di lui, si creano momenti di lievità, espressioni spontanee dell’umanità di questi ragazzi di strada, abbandonati da tutti.
Il rapporto travagliato tra don Pino e il ragazzo Saro è un caso esemplare. Quando, all’inizio del film, don Pino lo bandisce dalla partita di calcio per la sua violenza, il ragazzo si scatena con una serie di parolacce contro il parroco; quando poi don Pino lo fa uscire dal carcere minorile per tenerlo in affidamento in parrocchia, Saro scappa via:
sembra proprio irriducibile. Ma il parroco dimostra fiducia in lui, un’esperienza nuova per Saro, e quando inaspettatamente il ragazzo riappare nel momento giusto e sistema il microfono del parroco che sta per celebrare Messa in piazza, noi rimaniamo soddisfatti. Quando poi, nel vicino salone del barbiere, il malavitoso Vito fa suonare una canzone ad alto volume per interrompere l’omelia, Saro alza il volume del microfono. Lo spettatore, vedendo questo momento di complicità tra Saro e don Pino, sorride e nello stesso tempo apprezza il significato del gesto di Saro: il ragazzo duro si sta schierando col parroco, capisce, o almeno intuisce, che il suo progetto a favore della gente di Brancaccio è giusto e, nonostante i rischi, egli ne vuole far parte. Più tardi, alla festa dell’inaugurazione del centro di accoglienza, quando vediamo Saro interrompere la musica di chitarra di suor Carolina, troppo clericale per lui, per sostituirla con una forte musica rap e un’energica
breakdance, che attira i ragazzini e perfino suor Carolina, comprendiamo il significato del suo gesto: la danza di Saro è un atto di liberazione morale-spirituale, una proclamazione della sua alleanza definitiva con questo “parrino” diverso, giusto e buono.
Un altro tocco leggero di Faenza è il gioco “tra gatto- e-topo” di don Pino e il più piccolo dei ragazzi, che arriva in scena mentre gli altri stanno mangiando la pizza al centro di accoglienza. Rispondendo al saluto del parroco, il piccolo, con voce profonda, si identifica: «Pe’ l’amici… mi chiamo Carmelo», ma quando don Pino l’invita ad aggiungersi al gruppo, egli scappa via. Qualche tempo dopo, il parroco, in giro con il seminarista Gregorio, vede il piccolo Carmelo seduto da solo per strada; si ferma e lo presenta a Gregorio come un suo amico. Carmelo risponde puntandogli contro il dito medio, gesto alquanto volgare, e di nuovo scappa via. Sorridiamo per l’incongruenza tra la statura piccola di Carmelo, il suo volto da angioletto e il gesto di dispetto. Poco dopo, il piccolo si riavvicina al parroco che lo tratta con rispetto e quando infine Carmelo si arrende alla bontà di don Pino, consegnandogli la chiave con la quale scassina le macchine e ruba le radio, sorridiamo di nuovo, ma ora con soddisfazione, per questa vittoria morale sia per il ragazzino che per don Pino.
Verso la metà del film, durante una festicciola al centro di accoglienza, suor Carolina, tenendo una bambina in braccio, si avvicina a due ragazzini; uno, con sfrontatezza, le domanda: «Ma le suore… (disegnando due curve con le mani) ce le hanno le minne?». Senza battere ciglia, lei risponde: «E voi, il pisellino l’avete?». Il breve dialogo fa ridere, ma non tanto per il contenuto quanto per la splendida ed efficacissima pedagogia di suor Carolina, a favore di questi bisognosi ragazzini di Brancaccio, ai quali si dedica, e che stanno imparando cruciali lezioni di vita da lei.
Una storia di redenzione in chiave cristica
In fin dei conti, Alla luce del sole rappresenta una storia di redenzione cristiana: dietro gli avvenimenti del film si intravedono, nella gente del Brancaccio, il popolo di Dio che soffre sotto il peso del male e ha bisogno di redenzione, e nella persona di don Pino Puglisi, un redentore, figura di Cristo. La narrazione dell’esperienza di redenzione nel Brancaccio acquisisce maggior significato sullo sfondo dell’altra storia di redenzione: la storia della redenzione in Gesù Cristo che viene vissuta di nuovo nel mondo, che ha tanto bisogno di redenzione. Gesù è morto per la verità, la moralità, la giustizia anche in Sicilia, nel Brancaccio di Palermo; è morto per liberare anche il popolo di Dio, che è al Brancaccio, dal potere del male che lo affligge. E, nella sua risurrezione, Egli offre a quella gente la garanzia di speranza, libertà e vita nuova.
Nelle diverse dimensioni rappresentative della vita, del ministero e della morte di don Pino, Faenza ripropone elementi della storia cristiana della salvezza. Quella più evidente, ne abbiamo già parlato, è appunto la redenzione che il “parrino” buono offre alla gente del Brancaccio, e soprattutto ai ragazzi, dalla schiavitù della mafia e dalla cultura mafiosa nella quale sono rinchiusi, dalla situazione di peccato “originale” e strutturale che ha tolto loro la libertà umana e spirituale.
Nella persona stessa di don Pino, Faenza allude alla dimensione cristica. Infatti, in quanto sacerdote, don Pino è alter Christus, anche se il regista, come abbiamo già notato, gli risparmia i soliti eccessi clericali, incarnando il suo sacerdozio non tanto in cerimonie liturgiche e strutture canoniche, quanto in un impegno di amore per il suo popolo, un impegno autentico, radicale e irrevocabile. Come Gesù, ebreo tra gli ebrei, don Pino è uno di Brancaccio e insiste spesso, evidenziando che egli vive e fa ministero in mezzo al suo popolo. Il parroco attira discepoli e condivide con loro la responsabilità della sua missione. Come Gesù, don Pino offre una particolare accoglienza ai bambini; comprendendo che in questi più piccoli e abbandonati risiede la speranza per il futuro della comunità.
Come Gesù, don Pino parla profeticamente, proclamando un regno di onestà, coerenza, giustizia, carità. Il regista riporta le parole del protagonista pronunciate in tre omelie, dall’altare e non dall’ambone, e lo fa parlare con forza morale, con coraggio. Il buon parroco non esclude nessuno dal regno, e in un momento particolarmente commovente, parla direttamente ai signori della mafia; Faenza fa sentire le sue parole veementi (come quelle di Gesù ai farisei) nel bar vicino alla chiesa, frequentata dai mafiosi: «Le porte di questa chiesa sono aperte per voi, venite, io vi accolgo… nel nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito santo…»
Don Pino compie atti fortemente e pericolosamente profetici: rifiuta la bustarella; nel giorno della festa del patrono guida una processione opposta alla celebrazione sponsorizzata dalla mafia e, atto ancora più provocatorio, va in televisione per far arrivare la sua verità a persone anche fuori dal Brancaccio. Come Gesù, come tanti profeti, il buon parroco viene rifiutato dalle “autorità”, che gli fanno resistenza e che passano velocemente da piccole a forti intimidazioni, da un brutale pestaggio allo spietato assassinio.
Non tutti rifiutano il profeta
Nel Vangelo, le parole e gli atti profetici di Gesù sono in gran parte rifiutate, però, per quelli che lo riconoscono e l’accettano, cambia tutto! Diverse volte, Faenza fa vedere questa stessa dinamica nel suo film, nei momenti in cui la decisione di accogliere don Pino, e la sua profezia di liberazione, porta cambiamenti importanti sia per le persone stesse che per la comunità del Bancaccio e per la sua lotta contro l’illegalità e l’immoralità.
A volte, Faenza rappresenta queste conversioni-liberazioni in chiave bassa: la povera donna Anita, per esempio, vittima silenziosa della violenza del marito-mafioso contro il loro figlio, per la sua lealtà a don Pino, che poi si unisce alla processione di san Gaetano guidata dallo stesso don Pino; la giovanissima prostituta Marta, accolta e aiutata dal parroco, che pure lei partecipa alla processione “contro-mafia”. Altre volte, però, Faenza fa delle persone che seguono don Pino testimoni drammatici della redenzione che egli offre.
Il ragazzo buono, Domenico, diventa il primo discepolo di don Pino nonostante suo padre sia uno spietato mafioso. Quando questi lo punisce crudelmente, per la sua continua associazione con il “parrino” scomodo, Faenza rivela il coraggio e la tenacia del ragazzo, ormai redento, nei primi piani della sua mano mentre il padre lo flagella. In una metafora di grande speranza, per ben tre volte il regista fa vedere la mano destra di Domenico chiusa in un pugno che trema dal dolore. Nella mano, il ragazzo tiene forte il fischietto da arbitro di calcio datogli da don Pino. Pur sottoponendosi alla crudeltà del padre, pur soffrendo per il divario morale che lo separa tragicamente dal genitore, il ragazzo non lascia cadere il fischietto. Il gesto sottile, ripreso in primo piano dal regista, diventa un forte segno della sua irrevocabile rivolta contro l’immorale tradizione mafiosa del padre. Verso la fine del film, lo stesso Domenico compie un drammatico atto profetico: assegnato dal padre alla squadra di morte che colpirà don Pino, egli preferisce togliersi la vita, piuttosto che tradire il maestro.
Il testimone più eloquente della redenzione offerta da don Pino è, però, il piccolo Carmelo, del quale abbiamo già accennato precedentemente. Dopo il suo iter redemptionis travagliato, Carmelo diventa un discepolo del tutto convinto e compie un gesto di grande coraggio. Alla Messa, dopo l’assassinio del giudice Falcone, l’assemblea risponde all’omelia forte di don Pino con un applauso fragoroso; la reazione dei politici locali in prima fila è debole, e il viscido primo consigliere, espressione velenosa sul volto, non applaude affatto. Il ragazzino si avvicina audacemente a lui e gli grida: «Auh… ammunì… auh… ammunì!». L’uomo solleva le mani e applaude.
La passione di un uomo giusto
Come per Gesù, anche per don Pino arriva il momento nel quale egli si rende conto di quanto gli verrà a costare la sua profezia. Egli parla apertamente e coraggiosamente con suor Carolina e Gregorio dell’oscuro pericolo che lo minaccia, anche della reale possibilità di dover morire. In un episodio sconvolgente, ma di grande forza morale, don Pino, all’indomani del brutale pestaggio notturno inflittogli dai malavitosi, si chiude in bagno e quando non riesce a mettersi la scarpa per il rigonfiamento del piede, scoppia in lacrime. Piange fortemente e a lungo, per frustrazione con se stesso, ma anche per l’ingiustizia che la situazione attuale reca al suo popolo; la scena fa pensare a Gesù che, quando l’inevitabilità della sua morte si delinea, piange su Gerusalemme (Lc 13,33-34). Molto bello, poi, il modo in cui Faenza fa del pianto di don Pino un atto profetico: fuori dal bagno, suor Carolina si ferma e ascolta, pure lei sconvolta, e poi, sia Saro che Carmelo si fermano a lungo a contemplare il pianto del buon “parrino,” il loro maestro; chiaramente essi soffrono con lui; l’esperienza è, forse, la più efficace lezione che don Pino offre a questi due discepoli prediletti.
Per sottolineare l’associazione con Cristo del suo protagonista nella sua passione e morte, Faenza sviluppa una serie di riferimenti visivi con il crocifisso. Quando don Pino rifiuta il tentativo del malavitoso Vito di corromperlo con la bustarella, Faenza fa vedere un crocifisso sulla parete della stanza del parroco e, in seguito, durante la terribile scena del pestaggio, Faenza inquadra di nuovo il crocifisso, chiaramente per legare la sofferenza del parroco con quella di Gesù. La mattina della morte di don Pino, Domenico riconsegna al suo maestro il crocifisso che egli gli aveva dato; il ragazzo vuole avvertire l’amico, ma Faenza usa il gesto anche per sottolineare l’identità cristica del sacerdote nell’accettare la morte per il suo popolo. Anche don Pino, infatti, accetta la sua morte come ha fatto Gesù: con piena consapevolezza, “alla luce del sole,” con coraggio, con calma. Egli si consegna agli assassini, rinforzato dalla fede che gli dice che per il buon pastore, che muore per le sue pecorelle, c’è la promessa di risurrezione.
Se i crocifissi che Faenza associa a don Pino sono segni del ruolo cristico che il sacerdote assume a favore della redenzione del suo popolo, segni della vittoria morale che poi si compie nel suo sacrificio, le croci che i mafiosi Gaetano, Vito e Filippo portano attorno al collo hanno il significato opposto: questi oggetti ostentati, ornamenti d’oro, diventano segni ironici del loro rifiuto dell’offerta di redenzione, simboli sacrileghi del terribile fallimento morale che si verifica in loro.
Faenza accentua la freddezza deliberata, con la quale i mafiosi rifiutano il bene e scelgono il male, nel montaggio parallelo-alternante, che rappresenta le scene degli assassini che seguono don Pino e, infine, lo uccidono, in contemporanea all’arrivo dei due boss mandanti in un luogo di vacanza, Forte dei Marmi, nella lontana Toscana. Mentre gli assassini si confrontano con il parroco, i boss, accompagnati dalle loro “fidanzate”, affittano una villa lussuosa, e quando arriva dal Brancaccio la conferma della morte del “parrino”, profeta scomodo, uno di loro, Filippo, ricevuta la telefonata, segnala la notizia a suo fratello con un blasfemo segno della croce. L’effetto del gesto e del montaggio, simile a un montaggio classico e, forse, anche più forte di quello del film di Francis Ford Coppola, Il Padrino-Parte Il (1974) (Coppola monta in parallelo diverse scene dei sicari del padrino, che compiono il violentissimo massacro di membri di un dan rivale, e scene contemporanee dello stesso padrino in chiesa a celebrare il battesimo di suo figlio. La calma freddezza con la quale l’uomo — una classica icona del male — ripete le promesse battesimali di rinunciare a Satana e alle sue opere, è tra i momenti più inquietanti, che io conosca, nel cinema), è sconvolgente.
Morte e risurrezione: il trionfo del mistero pasquale
La morte di don Pino “alla luce del sole” è una terribile tragedia per la sua comunità, come è la morte di Gesù per i suoi discepoli. Essa sembra marcare la fine di uno splendido progetto di liberazione, segnalando il trionfo del male. Il profeta è riverso per terra, solo e abbandonato, mentre il suo sangue si sparge sulle pietre: la sua voce forte è ridotta al silenzio, la luce sembra trasformarsi in tenebre.
Ma Faenza non lascia che la narrazione della grande avventura di liberazione si chiuda così. In un breve ma eloquente epilogo, egli si ferma brevemente sul triste evento storico-concreto della veglia funebre di don Pino, durante il quale i discepoli fanno visita al maestro morto nella sua, nella loro chiesa: suor Carolina e Gregorio sono in ginocchio e
i suoi cari ragazzi decorano la bara con regali. Poi, quando l’ultimo dei ragazzi, l’amato discepolo Carmelo, si gira per andare via, Faenza sposta la narrazione a livello metastorico, l’ambito della risurrezione di Cristo, e fa sentire a Carmelo qualcuno che lo chiama per nome, come Maria Maddalena, che vicina al sepolcro sente Gesù chiamare il suo nome (Gv 20,16). Il ragazzino si volta verso questa voce che riconosce e vede, seduto laggiù in chiesa, don Pino, vivo e sorridente, che si manifesta a lui. Carmelo, con l’espressione triste cambiata in gioia, contempla per un attimo il suo amico e lo saluta.
Abbiamo proposto diverse volte, su questa rivista, l’idea che l’episodio più problematico della rappresentazione filmica della vita Christi, o di una analogia dell’evento Cristo, è quello della risurrezione. Laddove diversi registi inciampano nella concretezza e nel kitsch, che in fin dei conti nega la risurrezione, in Alla luce del sole Faenza riesce ammirevolmente a cogliere nell’esperienza di vita, di speranza, di gioia che ha Carmelo, nell’incontro con l’amato parrino, il profondo significato della risurrezione. Il discepolo ha visto il maestro morto, ma ora lo sperimenta vivo, in un’apparizione pervasa dalla splendida “luce del sole”, attraverso la porta aperta della chiesa. L’oscuro fallimento della morte sacrifica- le dell’amico è trasformato in una grande e gioiosa vittoria, che promette molto per il piccolo Carmelo e per il futuro della comunità.
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