ucciso in odium fidei
ASSASSINIO A BRANCACCIO
La mafia, uccidendo Padre Giuseppe Puglisi, voce del vangelo e dei poveri, sfida la Chiesa. Che, libera ormai da reticenze e compromessi, reagisce senza paura in nome del sangue versato.
di Giovanni Bonanno
È necessario l’assassinio di un profeta perché, in Sicilia, esploda la rivolta delle coscienze contro la mafia e i suoi crimini. La morte di Padre Giuseppe Puglisi sotto i colpi dei killer sconcerta l’opinione pubblica e scuote il mondo cattolico perché il parroco di Brancaccio è parola vivente del vangelo, ministro di carità, educatore dei giovani, uomo di speranza fra i disperati, capace di affrontare, con innocente coraggio, i boss di Cosa Nostra, che odiano lui e la sua fede.
Prima del sacerdote palermitano molti servitori dello Stato patiscono la violenza della Cupola, spietatamente trucidati. Al grido di angoscia dei familiari e della gente subentra la rassegnazione di fronte a una struttura che pervade, come metastasi, il corpo della società politica, imprenditoriale e burocratica. Ovunque un senso di sconfitta.
Con ritardo – cioè dopo decenni di silenzio – la Chiesa italiana prende posizione avendo a lungo disatteso l’invocazione d’aiuto della Sicilia, dei vescovi e dei fedeli. Dichiara apertis verbis delinquenziale la mafia cacciandola dalla casa di Dio, non solo perché scientemente contraria al decalogo e al vangelo, ma anche perché abusa della religione e delle componenti ecclesiali per raggiungere fini di dominio sanguinario.
Società di crimini
Dopo tanti eventi tragici, che sconvolgono la compagine cattolica, con il massacro di laici e sacerdoti impegnati nella evangelizzazione e nella testimonianza, finalmente la Conferenza Episcopale Italiana non temporeggia più e nel documento del 2009, dal titolo Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, afferma senza reticenze: In un contesto come quello meridionale, le mafie sono la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”. In questa prospettiva non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato. Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e immolarsi. Straordinaria, anche se tardiva, dichiarazione che permette di definire come negazione di Dio la mafia, la quale strumentalizza cinicamente le forme esteriori della religiosità per confondere e illudere la chiesa, ammantandosi di devozionismo.
È da oltre un secolo che tale fenomeno si coniuga con la vita religiosa nelle manifestazioni associative, rituali, processionali in cui balza il ruolo comprimario degli adepti della mafia in veste di confrati, attenti al controllo del territorio e delle persone, in grado di intimorire e ricattare quanti non si dispongono alla sottomissione fino all’utilizzo della violenza e della rapina, delle armi e delle uccisioni.
Leonardo Sciascia, che al fenomeno dedica l’acutezza dell’indagine in scritti che avrebbero dovuto traumatizzare il torpore religioso e far gridare allo scandalo vescovi e preti, definisce in Parlamento, nel 1980, la mafia: associazione a delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati e ancora intermediazione parassitaria imposta con mezzi di violenza fra la proprietà e il lavoro, fra la produzione e il consumo, fra il cittadino e lo Stato.
Non solo fra la gente è chiara la percezione di disumanità dei clan, ma anche delle connessioni, indirette e dirette, della gerarchia siciliana con i tanti padrini che dominano, sfruttano, ricattano ed eliminano avversari, mostrandosi davanti ai parroci paladini dell’anticomunismo e della religione, per meglio poi proseguire l’illecito arricchimento con un sistema di sfruttamento che non teme di ricorrere al sopruso e all’assassinio.
Vasta è la bibliografia concernente la società onorata, che con la sua struttura verticistica ingloba in sé imprenditoria e commerci, in stretto rapporto con certa politica municipale, regionale e nazionale, che, il più delle volte, viene condizionata. Trasformatasi in multinazionale del crimine, la mafia è ora azionista di banche e organismi finanziari con ruolo determinante. Da oltre sessanta anni scrittori, storici, sociologi e giornalisti ne indagano la struttura, ritraendo i protagonisti e le loro azioni per giungere al punto cruciale della sistematicità del crimine, meglio di un sistema organizzato con metodi, finalità e piani peculiari che non lasciano dubbio alcuno.
A firma di autori italiani e statunitensi c’è una letteratura articolata di inchieste, saggi, narrativa, articoli e gialli che mette a fuoco l’atrocità di Cosa nostra, i suoi rapporti con politici, banchieri e imprenditori, le sue relazioni pseudo religiose con ecclesiastici e confraternite, che mistificano il senso di chiesa e fede. Di questo materiale sociologico non si è gran che preoccupata la gerarchia siciliana giudicandolo, a priori, preconcetto a tal punto da dichiarare, negli anni cinquanta, che si tratta di falsità e che la mafia è un’invenzione di detrattori della democrazia e del cristianesimo. Binomio che consente coperture nel tradimento della verità fino a permettere a mandanti ed esecutori, che oltraggiano la giustizia e commettono carneficine, un’impunità plateale.
La storia della Sicilia si tesse, quindi, della realtà di una holding che, sotto spoglie sacrali, mira al potere e alla speculazione sfruttando miseria e paura, disponendosi con subdola ragione aservirsi delle debolezze del clero, favorendone prurigini economiche, talvolta compromettenti. È notoria la generosità dei padrini di Cosa Nostra nei confronti di parrocchie e parroci, conventi e religiosi che, confusi da tanta prodigalità, si dispongono a ricambiare sostenendo, con benevolenza, le campagne elettorali dei mafiosi che chiedono l’appoggio della chiesa. Umili nei gesti, devoti nelle parole si mostrano gli affiliati dinanzi agli uomini di chiesa, spesso servizievoli sino al servilismo. Apparenza che loro permette, con addosso scapolari di confraternite, di partecipare o presiedere gruppi e movimenti cattolici e di sorvegliare la vita religiosa e sociale di comunità, quartieri, paesi, territori, province. Della Sicilia intera. Rete che imprigiona, senza possibilità di fuga, la gente comune e la compagine ecclesiastica.
Relazioni inquietanti
Emblematico connubio che si protrae, per oltre quarant’anni, nello sconcerto generale, mentre in non pochi vescovadi si nega persino l’esistenza del fenomeno mafioso, i cui capi sono considerati galantuomini e cristiani di rispetto. Inganno palese nell’inestricabile groviglio di rapporti malsani. Si ha la sensazione che mafia e chiesa vadano di pari passo con un programma di idealità socio-politico-religiose, di anticomunismo e anti ateismo, che camuffa altre finalità. La gerarchia non si rende conto di essere irretita, asservita alla logica di un potere sanguinario che miete vittime, giorno dopo giorno, con l’eliminazione di operai, contadini e sindacalisti, i cui funerali, in chiesa, si svolgono nel terrore e nell’indifferenza, anche perché dall’altare non si leva una voce di condanna rivolta ad assassini e mandanti, cioè alla manovalanza e ai vertici della mafia imprenditoriale e politica.
Già a metà anni sessanta risulta abnorme il silenzio della chiesa, che continua a ignorare la virulenza dei clan. Roma, meglio la Santa Sede, da tempo conscia della gravità del problema, vorrebbe che Palermo, cioè arcivescovado e curia, ponesse fine al mercimonio che perdura con sofferenza di vittime e oppositori, ma anche di cattolici impegnati e di sacerdoti, che sentono nell’ignavia della gerarchia un assecondamento dell’azione di boss, clan e famiglie, le cui donne fanno parte dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, dispensatrici di pubbliche elemosine e di atteggiamenti ossequiosi.
Da più parte ci si chiede – anche per l’attacco di quotidiani quali L’Unità e L’Ora – se il sistema dell’omertà non si sia trasferito all’interno della chiesa e se questa non sia divenuta consustanziale all’essere della mafia. Riflessioni atroci, sollecitate da rapporti e connivenze che mettono in rilievo l’assenza di giudizio e condanna della chiesa siciliana dinanzi alla sistematicità dei delitti, di cui tutti sanno, senza che alcuno possa pronunziare il nome della società mandante e dei suoi leaders. Anzi assolutorio risulta il mutismo, nella quasi certezza che gli uccisi siano responsabili della loro uccisione avendo, presumibilmente, commesso torto e che l’innocenza del padrino, innominato, sia al di sopra di ogni sospetto. Se un fatto così grave è accaduto è probabile – si mormora in sacrestia -che sia successo per arginare un male maggiore, evitato dalla prudenza del “don Calogero” di turno, che non manca di assistere alla cerimonia liturgica, con moglie e figlie, la domenica successiva.
Contesto inquietante di delitti e assoluzioni, di consensuale omertà, che svela l’avvilimento della chiesa e il suo assuefarsi a un’etica di clan, che si serve della debolezza clericale, dei “don Abbondio”, la cui deviante apologetica della mafia non solo tace dei misfatti, ma benedice chi, assurgendo a giustiziere, si macchia del sangue di innocenti e deboli.
L’arcivescovo si ribella
Quando intorno al 1975 – dopo persistenti denunce di intellettuali, magistrati e giornalisti, non governativi, e di sacerdoti e consacrati liberi – il grido di rivolta del vescovo scuote la città. Appare un evento profetico. Soprattutto i giovani presbiteri sentono che sta per risorgere dall’abisso la chiesa e si stringono attorno al pastore. Negli anni successivi si fa sempre più ardito il j’accuse del cardinale Salvatore Pappalardo, che invita credenti e agnostici a unire le forze contro il sistema mafioso, a non rassegnarsi, a credere nella liberazione dalla paura, a non sottostare ai ricatti di boss e politici, della stessa Democrazia Cristiana, ben sapendo, alla luce del Vangelo, che gli uomini di Cosa Nostra non possono continuare a dirsi, rebus sic stantibus, cristiani, negando, con atrocità di comportamenti, la fede recitata a parole. Del resto oltre ad essere orpello sociale la religione dei killer non è adesione alla verità della chiesa e alla sua sacralità, bensì proclamazione di un opportunismo che fonda la logica nel terrore. Il suo ammantarsi di stendardi e di segni sacri è impostura deliberata che stordisce i semplici, ma non piega quanti della fede esperimentano la purezza ascetica e l’amore, avendo chiaro che il dio della mafia è il denaro, mammona, l’illecito arricchimento con potere di vita e morte.
A Palermo la chiesa inizia un travaglio di conversione a diversi livelli: in cenacoli, comunità, parrocchie, monasteri, curia. Di grande significato è l’apporto di teologi e sociologi, professori, sacerdoti e giuristi sul tema della mafia e sulle modalità di interventi per aiutare la diocesi prima, poi la Sicilia nelle sue molteplici sfaccettature morali, educative, religiose, sociali, culturali e politiche. Un vento, fresco e avvolgente, sommuove le intelligenze dei più spingendole al pensiero e all’azione: urge ridare anima nuova alla gente perché prenda le distanze dalla mafia e conti sulla grazia per ricostruire il presente e progettare il domani.
Nel rifiorire della speranza – che trova eco nella società civile, nel mondo universitario, nella scuola, nei sindacati, nei mass media e in alcuni settori della politica – sono sempre più i vescovi e i presbiteri che si impegnano, con sensibilità pastorale, a creare correnti di opinione e gruppi operativi a favore di giovani e fanciulli. Nascono centri di formazione e preghiera, volti al recupero di quanti sono circuiti dalle cosche, all’aiuto dei meno abbienti, elemosinanti un tozzo di pane, alla crescita umana e spirituale dei ragazzi di strada, disponibili a ruoli di compartecipazione mafiosa nei quartieri e nelle borgate. Un lavoro che impegna migliaia di uomini e donne dell’arcidiocesi, come testimonia la Missione Palermo, che vede alfiere di libertà e carità l’arcivescovo, al cui fianco si trovano parroci, suore e frati, uniti dall’ansia di purificazione. Alcuni, in particolare, come il gesuita La Rosa e il francescano La Grua, sono protagonisti di una evangelizzazione umana che pone l’accento su miseria, dolore, riscatto e fedeltà a Cristo.
Dinanzi all’opera di riscossa delle coscienze per un cristianesimo maturo, capace di rifiutare compromessi con strateghi ed esecutori di oppressioni, la mafia sta a guardare. Esamina parole e gesti, giudica e tace. Non pochi dei suoi sono infiltrati nelle sacrestie. Alcuni, che continuano aprofessare devozione, circolano fra i gruppi di rinnovamento. È la gramigna che si confonde con il grano. Non è facile estirparla subito. Necessita un’operazione paziente affermando, con la parola biblica e la testimonianza della carità, che non si può essere cristiani condividendo il mondo della mafia o peggio vivendo con essa e la sua cultura di morte.
Questo leit-mitiv, durante omelie, convegni, tavole rotonde, in televisione o sui giornali, comincia a infastidire. Se i vertici e i capi mandamento sanno tenere a freno i nervi – pur vedendosi incriminati da una chiesa che li rigetta e che nega loro l’appellativo di cristiani facendoli sentire scomunicati, non appartenenti a Cristo – i giovani rampanti che mirano, pistola alla mano, a conquistare gradi di comando, non hanno problemi né sociali né sacrali. Cresciuti al di fuori di contesti religiosi, sono sicuri del potere, acquisito tramite prostituzione e droga, e sono disposti a uccidere. Non fa parte del loro sentire il fattore religioso. Dall’età di dieci anni non frequentano la chiesa che considerano rifugio di incapaci e vecchi. Sono pronti a irridere chi pensa diversamente e chi, soprattutto, fa il prete. Nei confronti di questi palese è il disprezzo, mai sfoggiato dai boss di vecchio stampo. I nuovi, scardinata l’intoccabilità di magistratura e polizia, donne e bambini, clero e suore, non hanno motivo di incontrare un parroco se non per burocrazia di matrimoni, battesimi e funerali. Del resto nel loro ambiente è considerata insulsa la sua figura, sebbene pericolosa per i discorsi di onestà ai giovani, mentre non smette di indebolire l’autorevolezza di boss e gregari, di svelare l’arricchimento disonesto, il controllo e il condizionamento del territorio, la brutalità dei ricatti, il terrore incusso e l’essere della mafia, praticamente, senza Dio, contraria alle leggi dello Stato e della Chiesa.
Scontro inevitabile
Tra chiesa e mafia inevitabile è lo scontro. L’incontro è impossibile a motivo della negazione dei diritti umani, dell’etica sociale e per la presunta superiorità del sistema omicida che crede di dover imporre le sue regole. Quella chiesa, a lungo accomodante e pusillanime, ora non teme di parlare in nome delle vittime e di essere biblicamente provocatrice urlando in chiesa, davanti ai morti ammazzati, la condanna di omicidi, giudicati non uomini bensì bestie, capaci solo di ferocia.
L’audacia sconvolge la cupola che scatena un contrattacco senza precedenti, di cui protagonisti sono i picciotti delle cosche. Alla chiesa di Palermo, rispettata e adulata una volta, si risponde con l’accusa di tradimento, come se un patto di sangue fosse stato infranto. Gettata la maschera, la mafia svela l’identità: associazione di impostori per i quali il delitto è condizione necessaria per affermare il potere, mentre non intende riconoscere né alla comunità civile né alla comunità cristiana il diritto di opporsi. La sua affermazione trova conferma nella sequenza di atti intimidatori, vessazioni, vendette, sequestri, incendi, esplosioni, massacri che terrorizzano mostrando, pubblicamente, una tracotante capacità di offesa nella presunzione di non dover essere condizionati né dallo Stato né dalla Chiesa, la quale non merita più rispetto.
Delirio di onnipotenza che richiama alla memoria l’incarnazione del male, di satana stesso, nella concezione totalitaria del nazismo e del comunismo che esercitano potere di morte contro chiunque si oppone ai piani diabolici. Se nella coscienza teologica del XX secolo lo sterminio dei lager e dei gulag altro non è che opera di satana, fattosi persona in Hitler e Stalin e in tutti i loro correi, altrettanto si può dire della personificazione del male, del peccato e del diavolo nella cupola della mafia e nei suoi stragisti, che, lucidamente, si camuffano di religiosismo magico per essere liberi di architettare e realizzare progetti nichilisti.
Appare evidente alla chiesa siciliana, ai sacerdoti particolarmente coinvolti nella evangelizzazione, di là dal perimetro sacro, l’abisso di marciume che struttura la mafia, la rapacità sanguinaria e il godimento nello sterminio di quanti non sottostanno alle minacce. Finalmente è chiaro alla maggioranza che la religiosità di Cosa nostra è strumentale. Non c’è nei suoi adepti alcuna pietà, né alcun sentimento cristiano, né tanto più partecipazione all’annunzio della fede. Il loro dirsi devoti è ipocrisia, opportuna in contesti pietistici, se metodo di vita è il sopruso, la vendetta, l’uccisone, non riconoscendo valore a Dio e alla sua Chiesa.
È mancato nella gerarchia, per troppo tempo, lo spirito profetico per cui vescovi e preti preferiscono l’acquiescenza, far finta di nulla, ignorare e non capire permettendo agli uomini d’onore di agire in tranquillità ed essere considerati soggetti perbene, degni di presiedere confraternite e partecipare, a titolo vario, alle attività di parrocchie, conventi, curie, mentre la loro azione continua a tramare ai danni di inermi e di giusti.
Evangelizzazione a Brancaccio
Solo quando – a partire dalla presa di coscienza pastorale e sociale dei primi anni ottanta – si fa travolgente il negazionismo sistematico della vita e della fede da parte della mafia e delle sue componenti, con il bagno di sangue di magistrati, politici, sindacalisti, imprenditori, cittadini comuni e perfino di fanciulli, un rigurgito di dignità spinge la comunità ecclesiale a prendere posizione, a giudicare e condannare gridando: basta. Urlo di dolore che, martellante, rilancia, ad ogni funerale, per tutto il decennio e oltre, l’arcivescovo. L’acme della tragedia si consuma il 15 settembre 1993 con l’uccisione di un sacerdote, mite ed evangelico, don Giuseppe Puglisi, riconosciuto in diocesi, in Sicilia e là dove giunge la sua missione, come guida spirituale, educatore di giovani, testimone operoso della carità. Uno dei sacerdoti maggiormente partecipi al recupero di uomini e donne, ragazzi e bambini circuiti, all’interno di una delle borgate dominate dalla mafia, da loschi figuri. Non gli si perdona di essere sacerdote e di lottare nel tentativo di dar forza a quanti sperano in una normalità secondo il cristianesimo.
È ucciso perché pastore di anime, fratello e padre, amico e maestro nella ordinarietà del ministero. Non prete antimafia, non capo di contropotere, nemmeno ideologo movimentista. La sua esistenza, a servizio diuturno di studenti e intellettuali, religiose e professionisti, operai, genitori e giovani, si incentra sulla Parola e sul Pane. La Parola della Rivelazione e il Pane dell’Eucaristia, di cui si alimenta e che, con amore, dona a tutti coloro che lo incontrano, sentendo in lui una sorgente di grazia. Lo incontrano perché lo sanno vero sacerdote, umile e sorridente, che ascolta a lungo prima di parlare e di offrire un’indicazione. Lo raggiungono, nel corso degli anni, nella parrocchia di Settecannoli, all’Istituto dell’Addaura, in Seminario, a Godrano, al Centro Regionale per le vocazioni.
Ora la parrocchia di Brancaccio è la casa di migliaia di amici, che bussano per dialogare, pregare, impegnarsi nel rinnovamento, contribuire alla maturazione della società. Da questo convergere di intenti nasce il Centro Padre Nostro, la cui azione determina capovolgimento di visione in un territorio aduso alla non speranza. E’ possibile ridare fiducia e sognare una comunità in crescita con scuola media e luoghi di aggregazione che consentano un’esistenza serena alla gente e ai ragazzi di non avvizzirsi nei crocicchi del quartiere, coinvolti in spaccio di droga prima, poi in pestaggi e intimidazioni. Disturba questa vitalità a Brancaccio dove giungono molti universitari e docenti, che contribuiscono con doposcuola, momenti di preghiera, manifestazioni, dibattiti, progetti non solo a scuotere l’ambiente, ma a indirizzare l’attenzione di mass media, amministratori e politici, società civile e chiesa sui problemi della borgata, atterrita dalla mafia, la quale non sopporta l’indebita ingerenza di estranei e l’impudenza di un parroco che propone un modo di essere non confacente alla tradizione locale. Disturbano le parole: onestà, perdono, carità, fede, sacramenti.
L’ultimo anno, il 1993, in particolare è segnato da eventi conturbanti che colpiscono la chiesa e il centro, giovani, adulti e bambini della comunità. Si percepisce, nella ritualità delle minacce, che Cosa nostra sta alzando il tiro. Non c’è dubbio: il prete deve andare via in una maniera o in un’altra. La paura si impossessa di tanti che continuano a resistere, sostenuti da Padre Puglisi, che non demorde. Dall’altare ha il coraggio di dire che i mafiosi non sono né uomini, nè cristiani, che non fanno parte della chiesa, negando di fatto comandamenti e vangelo. Rivelazione che sconcerta i capi della borgata, svergognati da un sacerdote per il quale la cupola decide, in risposta, la condanna a morte.
Amicizia fraterna
È dal 1955 che conosco don Giuseppe Puglisi. Ma è intorno al 1975 che ha inizio la familiarità che si intensifica: sempre più amico e fratello, vicino a me e a mia moglie – già sua allieva -soprattutto negli istanti difficili. Abitualmente dal 1982 frequenta casa mia, che inonda di limpida presenza e di umanità gioiosa. Con i miei tre bambini è festosamente paterno. Negli incontri parliamo di chiesa e di concilio, di teologia, cultura e arte, di questioni socio-politiche, di Palermo e delle sue emergenze, dei ragazzi che esperimentano la durezza e sognano il futuro, dei giovani che partecipano con forza alla costruzione della società, formandosi negli studi, consapevoli di dover servire. Pregna di speranza la sua riflessione.
Spesso, negli ultimi anni, è ospite a tavola. Talvolta quando ad ora di pranzo, di ritorno dall’Accademia di belle arti, suono il citofono, è lui ad aprirmi assicurandomi, scherzosamente, che la pasta è quasi pronta. Poi davanti a un frugale pasto riprendiamo i temi comuni, da lui analizzati con acuta saggezza, certo di un prossimo cambiamento. Sua preoccupazione sono i figli di Brancaccio per i quali – mi informa – sta creando, con l’apporto di parecchi volontari, un centro di vita sociale e spirituale. E’ contento che per l’inaugurazione il cardinale Pappalardo presiederà la cerimonia e benedirà l’opera, ma vuole che mia moglie ed io siamo a festeggiare con lui. Un evento per la borgata, quel giorno. Un segno di strategia caritativa e pastorale, compartecipata da sacerdoti e suore, da cattolici e laici impegnati, giunti da tutta la provincia.
L’ultimo incontro con “Peppino” è a pranzo, sempre da me, il 6 giugno 1993: piuttosto silenzioso, diafano nel volto, lo sguardo smarrito, nervose le mani. Parla a scatti. Gli chiedo, sottovoce, cosa stesse succedendo. Mi accenna che in borgata la situazione è molto tesa, che non poche intimidazioni inquietano i parrocchiani e i giovani del Centro Padre Nostro. È lucido nell’affermare di sentirsi sotto il mirino della mafia locale, che lo provoca con i suoi picciotti, ma non è disposto a cedere. Ad un tratto tronca la conversazione: è meglio non parlarne più. Mia moglie che, da studentessa, è stata per anni da lui guidata e formata, lo invita, sul punto di andarsene, a trascorrere, in estate, con noi qualche giorno di vacanza nella nostra casetta al mare, come l’anno precedente. Peppino promette e commosso ci abbraccia. Non ci siamo più visti.
Al mattino del 16 settembre, atroce giunge la telefonata di don Giacomo Ribaudo che comunica la tragedia. Resto turbato, ma -non so perché – anche sereno, certo della sua fedeltà. Di getto scrivo per Avvenire un mio pezzo, che il quotidiano pubblica il giorno seguente. Dopo, sino ad oggi, non vergo più un rigo su questo martire della chiesa di Palermo, immolatosi per la sua comunità. Di lui a casa mia è vivo il ricordo, il sorriso e lo sguardo, la parola fraterna, l’affetto dell’amico, la spiritualità di sacerdote. Campeggia la sua foto nel soggiorno e nello studio. Ci ricorda la sua vicinanza di angelo custode.
L’omicidio del sacerdote
Sotto i colpi di una pistola Padre Giuseppe Puglisi muore la sera del 15 settembre 1993, giorno del 56° compleanno. I funerali non si svolgono né in parrocchia, né in cattedrale. Un’immensa folla gremisce il più grande spiazzo di Brancaccio. Davanti al feretro l’urlo del cardinale si fa accusa, condanna, sfida. Per la mafia inesorabile il giudizio: disumana, vigliacca, omicida, anticristiana. L’uccisone di un servo dell’altare sancisce una brutalità che è blasfemia di Dio e odio della Chiesa. Senza attenuanti. La società si trova al cospetto di un potere diabolico che si autogenera con frode e inganno, infamia e strage, in nome del suo giustizialismo, che ripudia etica, legge, giustizia e fede. Non ha dubbi l’arcivescovo nel denudare quella mafia che, per oltre un secolo, si nasconde come serpe in seno a confraternite e sacrestie, smascherandone il devozionismo ammantato di immagini: crocifissi, madonne e santi, quali talismani, pencolanti in collane d’oro massiccio o in mostra all’interno di macchine con cadaveri, per scongiurare arresti, tribunali e carceri. Del suo organismo svela la falsità che le consente di apparire benefica, mentre in realtà trama tradimenti e stermini che compie con l’omertà di una popolazione impaurita, che non vuol sapere né vedere. Con un esercito di killer, che non ha più remore sociali e morali, per cui può uccidere anche i preti, in precedenza considerati intoccabili. Ma se i sacerdoti sono d’intralcio, nulla vieta la punizione letale.
C’è dolore per l’assassinio di così degno ministro di Dio, a cui si stringe, sgomenta, la città, la regione, la comunità cattolica nella consapevolezza che don Puglisi viene trucidato perché vive le beatitudini evangeliche, proclama la parola del Signore, con i sacramenti dona la grazia, afferma la dignità degli uomini e dei battezzati, che la mafia di Brancaccio, meglio la mafia dei capi disprezza con arrogante trivialità. Qualche giorno dopo la sepoltura, quando la stessa borgata stenta ad accettare la sfrontatezza dei carnefici, che stravolgono gli equilibri delle famiglie e loro religiosità, corre voce l’inaudita ignominia che motiverebbe l’uccisione del parroco di San Gaetano. Un’onta – si vocifera -che solo il sangue può, in qualche modo, cancellare. Lo sgomento per tanto disonore dovrebbe, nelle intenzioni della mafia, acquietare i malumori. Spergiuro ragionamento che gela gli animi e inocula dubbi sulla persona di padre Puglisi, eliminato perché avrebbe profittato di alcuni bambini. Un pedofilo punito. A respingere l’abiezione intervengono in molti che conoscono la delicatezza dell’uomo e del sacerdote, l’innocenza di cuore e l’amore paterno per i piccoli, ai quali, insieme con madri e padri partecipi della formazione, offre la santità del suo vivere quotidiano. Alla diceria si interessano vari organi che si rendono conto come, artatamente, è fatta serpeggiare la menzogna, a cui in seguito nessuno crede.
Con l’assassinio don Pino, che i più considerano padre, fratello e amico, la mafia squaderna la sua verità di associazione criminale senza camuffarsi di pietismi. Goffo il tentativo moralistico di menti rozze che infangano solo se stessi. In realtà rivelano come la loro architettura sacrale sia un’impostura, che nasconde l’ateismo pratico con cui violentano la vita degli uomini negando Dio e la sua Incarnazione.
Non sussistono, nella struttura della mafia, elaborazioni ideologiche, non documenti formali. Lungi l’idea di una teoria che espliciti, pur in forme criptiche, il credo dell’organizzazione e il suo rapporto con il Vangelo. La cupola non ha motivo di scrivere e ufficializzare. Lascia ciascun affiliato libero di credere quel che vuole e di servirsi di madonne e santi a uso e consumo personale. Mai alcun riferimento al mistero di Dio, a Cristo e alla Chiesa. Ma nemmeno una distanza dichiarata. La metafisica non interessa. Così pure il pensiero esistenziale, la ricerca interiore, la teologia, la fede. Cose inutili da non menzionare. Talvolta nelle parole untuose è qualche riferimento pietistico, che serve a illudere. Poi è la concretezza di una storia che per illecito arricchimento e orgia di dominio, fa della sopraffazione la sua legge.
Essoterismo e ateismo
Una riflessione di impianto esoterico, che vorrebbe essere svelamento dell’essenza della mafia, la si trova nel libro, -pubblicato a Roma nel 2006, presso l’editore Savera -dal titolo Il vescovo di Cosa nostra. L’autore, nativo di Brancaccio, nel dichiararsi massone e gnostico, mette in luce l’intendimento di svelare segreti atavici, custoditi da generazione in generazione in seno alla sua famiglia. Verità riguardante il Messia, uomo non Dio, e la stirpe messianica, di cui egli è ultimo desposino nella prima parte; nella seconda la nascita e l’evoluzione di Cosa nostra. Libro che miscela storia e fantasia, magia e veggenza, profetismo e teologismo nel tentativo di dare un fondamento “colto” alla mafia, che si rapporta a giudaismo, cristianesimo, templari, massoneria, chiesa e politica, avendo come centro topico, negli ultimi secoli, la borgata di Brancaccio e la stessa chiesa parrocchiale. Di là dal disvelamento che nuovo messia e pastore della mafia è lo stesso scrittore, custode del Santo Graal, il testo – da ben criptare – è somma di sofismi, tesi a declassare il Cristo della storia e della fede e a ritrarre la Chiesa come potenza che alimenta il mito della religione e la sua necessaria falsità.
Probabilmente questo libro (scritto da più mani) mentre racconta con formulazioni farraginose un certo sviluppo della mafia e del suo radicamento nell’occultismo e nello gnosticismo, nella cultura ebraica e nella tradizione cattolica, vuole far sapere che Bibbia e Vangelo, fede e chiesa sono prodotti sociologici, espressioni antropologiche costruite su dogmi inesistenti. L’unica conoscenza è quella dell’autore, la cui nascita, profetizzata dalla veggente Anna di Carcassone nel 1270, costituisce promessa di salvezza, essendo il piccolo ultimo rampollo del real casa di David, che il genitore, alla nascita, consacra Vescovo.
Misteriosofico il racconto diretto a iniziati al fine di un messaggio, liquido nella scienza, nel pensiero e nel linguaggio, che insegni e ammonisca. Al suo verbo debbono ispirarsi gli indrottinati di massoneria e mafia, formulando un iter personale, ad esso subalterno, per perpetuare la verità attorno a cui si muove l’imprescrutabile corso degli eventi. Scrittura che spiega e non spiega, ma che contribuisce a obnubilare e sublimare un fenomeno irreligioso, ateo nella prammatica, che non ha rapporto con la fede in Cristo e nella Chiesa.
Nel considerare il sotterraneo, massonico e sanguinario, della mafia, stupisce come, per tante stagioni, vescovi e preti non si siano voluti rendere conto dell’assenza della fede nella prassi di boss, padrini e killer. Li hanno vicini e non li vedono. Spesso li scusano, assolvono, stimano, promuovono, esaltano. Scandalo che sconcerta e allontana dalla chiesa quanti custodiscono il valore dell’uomo e la sua sacralità davanti a Dio. Scandalo perché la Chiesa di Cristo si lascia condizionare da assassini, che non teorizzano con sillogismi la dimensione di Dio, né formulano pensieri sulla rivelazione cristiana vivendone il messaggio, ma con concretezza di atti delittuosi, studiati e organizzati, producono angoscia e morte in ogni angolo della Sicilia prima, poi ovunque la Mafia estende i tentacoli.
Sa di ridicolo affermare, come ancora qualcuno prova, la religiosità delle famiglie mafiose sol perché tengono in vista madonne addolorate e piagati crocifissi e si fanno promotori di processioni. Forse sarebbe opportuno, di là da discorsi scusanti, rivedere certe sequenze filmiche che – pur con spettacolarità -traducono l’idea che di Dio e della Chiesa hanno i mafiosi. Non che il film di Francis Ford Coppola, Il Padrino, sia dogma, ma ritrae la commistione e il silenzio della comunità ecclesiastica nei confronti dei delitti di mafia.
Riandando con la mente alle Confessioni di Sant’Agostino e al suo inquietum cor nostrum donec requiescat in te, risulta abnorme considerare, tout-court, atei gli intellettuali, che pur cercando non trovano Dio, né nell’inquietudine del pensiero filosofico né nel travaglio della scienza nucleare, mentre non suscitano problemi d’ordine teologico soggetti malavitosi, congregati cinicamente all’interno di un sistema che violenta e trucida secondo infernali pianificazioni. Questi negatori della vita, dell’uomo icona divina, ci si ostina a non considerarli atei sol perché non pubblicano saggi in cui argomentano il rifiuto della religione. Si è di fronte a una logica dell’assurdo o forse di un quietismo, che umilia intelligenza e fede. Probabilmente è giunto il momento di rivedere i parametri teologici e le ragioni pastorali riguardanti il fenomeno della mafia che, con l’ateismo pratico, non smette di ricomporre, dentro lo stesso perimetro ecclesiale, il suo identikit di devozione.
Negazione sanguinaria
In questo contesto matura l’avversione per il ministero sacerdotale di padre Puglisi, presto tramutatasi in disprezzo con la sicumera che, a Brancaccio e in Sicilia, nemmeno Dio ha diritto a intromettersi. Vacua del resto è considerata la requisitoria del Cardinale di Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur. Lascia indifferenti boss, gregari e killer, ora non più disposti a sopportare prediche e preghiere di un povero parrino che osa mettere in crisi la loro autorità. Dimentica del devozionismo di facciata e forte della truculenza, Cosa Nostra lancia alla chiesa la provocazione inaudita uccidendo, con marchio indelebile, il parroco di San Gaetano, il quale agli assassini offre, nell’istante estremo, il suo sorriso.
L’aver confuso come cristianesimo la partecipazione a riti e processioni costituisce grave errore per il clero acquiescente, non propenso a esercitare l’intelligenza dinanzi al male: siate… astuti come i serpenti secondo l’invito di Cristo, il quale esperimenta l’azione diabolica dei farisei. Clero che si contenta di non disturbare perché trae vantaggi, non ultimo quello economico. Così per molti decenni il viluppo diventa inestricabile e la mafia acquisisce una onnipotenza che la fa sentire al di sopra di qualunque legge.
Dopo il biasimo della Chiesa conciliare, non rassegnata a vedere Palermo e l’Isola come mattatoio di vinti, il contrattacco della cupola sa di dichiarazione ideologica perché nega al Vangelo diritto di parola. La risposta all’ingerenza è l’uso delle armi e il possibile omicidio di vescovi, preti e consacrati. Odio esplicito per la Parola incarnata, per la fede vissuta, per la sacramentalità della Ecclesia Dei. Odium fidei. Odio per un sacerdote che custodisce il gregge e non si sottrae alla ferocia dei lupi, di criminali che, non più con subdola maschera, ma platealmente, lo eliminano, cercando, inoltre, di lordarne la persona.
È dentro la procedura di frode ed eccidio la filosofia della mafia, la sua metafisica non scritta, la ragione trascendente che confonde menti deboli o bacate. Ideologia che afferma, dopo l’unità d’Italia, l’assolutismo letale, azzerando comandamenti e beatitudini. Ateismo criminale di sedicenti giustizieri nella cui tenebrosità è il codice d’onore di una fucina di diaboliche operazioni, che considera solo se stessa, il denaro, il comando, l’orgia di sangue. Società che non ha niente di umano e sacro, che non crede in Dio, in Cristo, nella Chiesa.
Pensare oggi la religiosità di padrini, boss, killer e gregari come distorsione e non rifiuto di Dio – dichiara nel suo documento del 2009 la Conferenza Episcopale Italiana – è semplicistico. Rivela miopia, incapacità di penetrazione dell’abisso di peccato e male, del satanismo che determina l’essenza della mafia.
L’assassinio annunziato di Padre Giuseppe Puglisi, ucciso – scrive Nino Barraco – dalla più spietata criminalità mafiosa, il suo martirio, non può essere compreso se non all’interno di questa società di impostori e nella tragica visione storica di migliaia di morti ammazzati. Alla montagna di scheletri, Cosa Nostra, nel 1993, delibera con odio di aggiungere un cadavere anomalo, quello di un sacerdote, alter Christus, il quale nella quotidianità condivide la sofferenza di Brancaccio e della Chiesa che difende con il sangue.
Non sa la mafia che eliminando quest’umile prete concorre – ironia della sorte – a rendere ancor più sacramentale la sua esistenza, segno di santità che redime, scuotendo le coscienze persino di molti adepti della criminalità in Sicilia, in Italia e in tante regioni.
La decisione di Benedetto XVI di proclamare beato il parroco di Brancaccio non sorprende. E’ nella logica delle cose. Ucciso in odium fidei, come evidenzia il documento pontificio, il sacerdote palermitano è il primo martire della mafia. Lui elevato dalla chiesa agli onori dell’altare. La mafia condannata dalla chiesa all’abominio per ateismo sanguinario.
Nella storia contemporanea il 25 maggio 2013, con la beatificazione di padre Giuseppe Puglisi, splende di luce mattutina. Per la Sicilia, dilaniata da stragi di magistrati, giornalisti, bambini, poliziotti,0 uomini e donne giusti, è l’incipit di una nuova pagina di storia. Giorno di resurrezione.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!