Carissimi, con questa amichevole lettera ci rivolgiamo – come pastori delle Chiese di Sicilia – ai fratelli e alle sorelle che con noi sperimentano la presenza pasquale del Signore Crocifisso e Risorto e con noi camminano incontro a Lui per le strade di questa nostra Isola. E ci rivolgiamo anche a tutte le persone bisognose di lasciarsi toccare il cuore dalla grazia di Cristo Gesù, oltre che agli uomini e alle donne di buona volontà che vivono e operano per un progresso pacifico e giusto in terra di Sicilia.
1. «Quel grido sgorgatomi dal cuore» Sono trascorsi venticinque anni dalla visita pastorale compiuta da san Giovanni Paolo II in Sicilia nel maggio 1993. In quel suo terzo viaggio apostolico nella nostra terra, papa Wojtyła fece tappa nelle diocesi di Trapani, Mazara del Vallo, Agrigento e Caltanissetta, ovunque suscitando entusiasmo e ricevendo sempre calorosa accoglienza. Soprattutto, ovunque e sempre facendo riecheggiare l’annuncio gioioso ed esigente del Vangelo.
1.1. Pace per questa terra Annuncio evangelico, peraltro, coraggiosamente e sapientemente mirato. Vale a dire non formulato in termini generici o espresso in astratto, bensì rivolto proprio a noi siciliani. Un annuncio, perciò, che si modulava – nelle parole e persino nei toni di volta in volta usati dal papa – tenendo conto del particolare contesto in cui esso andava risuonando. Perciò riferendosi alle concrete situazioni – sociali, culturali, religiose – con cui prendeva contatto e interpretandole alla luce della Parola del Signore. L’annuncio del Vangelo fatto da san Giovanni Paolo II in Sicilia, durante quel suo viaggio, ebbe un’espressione particolarmente significativa ad Agrigento, a conclusione della concelebrazione eucaristica tenutasi il 9 maggio nella Valle dei Templi. Quello scenario suggestivo suscitò in lui l’impulso a prendere ancora la parola per un ultimo saluto “a braccio”, al fine di contestualizzare anche l’augurio di congedo all’immensa assemblea lì radunata, proclamato dal diacono con le parole del rituale: «Andate in pace». Il papa parlò, dunque, per prolungare quell’augurio, spiegando come il popolo siciliano doveva recepirlo e intenderlo: «Carissimi, vi auguro, come ha detto il diacono, di andare in pace e di trovare la pace nella vostra terra». A poca distanza dall’antico tempio greco della Concordia, egli traduceva “in siciliano” l’augurio liturgico della pace «nel nome del Signore»: «Che sia concordia!». Si trattò di una traduzione “storica”. Non perché rievocasse l’antico genio ellenico che molti secoli prima aveva plasmato la bellezza di quel sito straordinario in cui s’era celebrata la messa, ma piuttosto perché riconduceva il senso della pace alle preoccupazioni e alle speranze che i siciliani sentivano urgenti in quell’ora della loro storia, travagliata più che mai dalla violenza di matrice mafiosa. Il papa augurava «concordia in questa terra»: «Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime».
1.2. Il ricordo delle vittime Erano gli anni in cui i numerosi clan mafiosi, da tempo contrapposti in sanguinose faide per conquistare il potere all’interno degli ambienti malavitosi, ritorcevano la loro brutalità omicida anche verso l’esterno, prendendo di mira chiunque si opponesse loro. Difatti, continuavano a cadere sotto i colpi della mafia molti leali servitori delle istituzioni e non pochi coraggiosi esponenti della società civile: rappresentanti dello Stato, uomini e donne delle forze dell’ordine, magistrati spesso trucidati insieme a qualche loro congiunto, sindacalisti, politici, giornalisti, imprenditori e commercianti, persino giovani e ragazzi coinvolti per vendetta contro i loro familiari, o talvolta per mera casualità, in quella micidiale spirale di morte. I loro nomi costituiscono una sorta di triste litania, troppo lunga per essere recitata a memoria. Nondimeno, avvertiamo come un dovere il permanente ricordo di quelle vittime della mafia e di quegli eroi della legalità, che hanno offerto un preziosissimo contributo a che la vita di tutti noi migliorasse. Essi hanno lottato, ciascuno a suo modo, per affrancarsi e per affrancarci dalla morsa di un potere maligno e abusivo, teso a ipotecare la vita di intere comunità, a ricattare le coscienze di tanti e a manipolarne le scelte, a guadagnarsi con perversi contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti, a inquinare la politica e la pubblica amministrazione, a frenare lo sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a privati tornaconti, a minare in vari modi la libera convivenza, ad attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza in un futuro migliore. Un potere capace, finanche, di indurre qualche ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo. 1.3. Un impegno da assumerci In quel suo discorso, nella Valle dei Templi, san Giovanni Paolo II mostrò d’essere lucidamente consapevole di tutto questo, rivolgendosi proprio ai «colpevoli» e ai «responsabili» della cancrena mafiosa che da molti decenni ormai toglieva la pace ai siciliani e instaurava nella nostra terra una falsa e terribile «civiltà della morte»: E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, debbono capire, debbono capire che non si permette [si legga: non è permesso] di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare o calpestare questo diritto santissimo di Dio! […] Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio. Parole – queste – proferite dal papa «nel nome di Cristo Crocefisso e Risorto», per lanciare un accorato appello alla conversione, in coerente continuità con la predicazione del Maestro di Nazareth. Ma anche per proporre una peculiare disamina del fenomeno mafioso e trarne, davanti e in mezzo al popolo siciliano, le debite conseguenze. Lo stesso san Giovanni Paolo II, qualche anno dopo, in Vaticano, incontrando un gruppo di pellegrini siciliani in un’udienza del 22 giugno 1995, considerò quel suo monito vigoroso – «Convertitevi!» – come un «grido sgorgatomi dal cuore». Un grido – continuava a spiegare in quell’occasione – lanciato non soltanto all’indirizzo dei mafiosi, ma anche per «fare appello ad ogni sana energia»: All’approssimarsi del nuovo millennio, ho invitato più volte tutta la Chiesa a compiere un coraggioso esame di coscienza, affinché la potenza e la grazia di Dio possano aprire una pagina nuova nella storia. Propongo altrettanto a voi, cari fedeli della Sicilia: voi dovete assumervi il vigoroso impegno di proseguire nello sforzo di dare alla vostra terra un volto rinnovato, degno della cultura e della civiltà cristiana che ha segnato la vostra Isola. Questo ho voluto gridare ad Agrigento.
2. Il timbro profetico dell’appello Quel grido – «che mi è uscito dal cuore ad Agrigento», sottolineò di nuovo papa Wojtyła nel suo discorso a Palermo, durante il Convegno delle Chiese d’Italia, nel novembre 1995 – si è prolungato sino ad oggi. In questa nostra lettera desideriamo riascoltarlo assieme a voi, per lasciarci ancora interpellare da esso. E per riproporci l’impegno della verifica alla quale san Giovanni Paolo II richiamò i credenti in Cristo Gesù che vivono qui in Sicilia.
2.1. La mafia è peccato Già il papa, del resto, lo diceva proprio durante il suo saluto del 9 maggio 1993: «Carissimi, non si dimentica facilmente una celebrazione in questa Valle». Non soltanto e non semplicemente per la bellezza di quella grande esperienza ecclesiale, ma anche e soprattutto per la portata profetica di quell’appello alla conversione, in prima battuta rivolto agli stessi mafiosi e poi esteso a ogni cristiano desideroso di riscattare il proprio ruolo nella società in Sicilia: «La mafia – precisava ancora il papa nell’udienza del 22 giugno 1995 – è generata da una società spiritualmente incapace di riconoscere la ricchezza della quale il popolo di Sicilia è portatore». Con quest’ultima affermazione, san Giovanni Paolo II forniva un’efficace chiave di lettura del crimine mafioso. La mafia si configura non solo come un gravissimo reato, ma anche come un disastroso deficit culturale e, di conseguenza, come un clamoroso tradimento della storia siciliana. Più precisamente, come un’anemia spirituale. E, per questo motivo, anche come un’incrinatura fatale nella virtù religiosa, che finisce così per risultare depotenziata e travisata. In questa medesima prospettiva, il grido che – a partire dalla Valle dei Templi – attraversò tutta la Sicilia nel maggio 1993, riecheggiando con forza anche nel resto d’Italia, non soltanto denunciava un’efferata attitudine criminosa, ma pure smascherava e continua a smascherare un vero e proprio peccato, cioè un rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza. Tutti i mafiosi sono peccatori: quelli con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti bianchi, quelli più o meno noti e quelli che si nascondono nell’ombra. Peccato è l’omertà di chi col proprio silenzio finisce per coprirne i misfatti, così facendosene – consapevolmente o meno – complice. Peccato ancor più grave è la mentalità mafiosa, anche quando si esprime nei gesti quotidiani di prevaricazione e in una inestinguibile sete di vendetta. Peccato gravissimo è l’azione mafiosa, sia quando viene personalmente eseguita sia quando viene comandata e delegata a terzi. Strutture di peccato sono le organizzazioni mafiose, perché con i loro intrighi e i loro traffici si rivoltano contro la volontà divina e producono quello che san Paolo chiamava il «salario del peccato», cioè la morte (Rm 6,23). La morte fisica, che le azioni mafiose causano dolorosamente tra gli esseri umani. E la morte radicale, che rimarrà – nel momento supremo del giudizio di Dio – inconciliabile con la vita eterna. 2.2. La mafia è incompatibile con il Vangelo Il grido di san Giovanni Paolo II, d’altra parte, si prolunga sino a noi, col suo timbro profetico, anche perché la mafia continua a esistere e a ordire le sue trame mortali, estendendole anzi – ormai da tempo – oltre la Sicilia, nel resto d’Italia e all’estero, procacciandosi ovunque connivenze e alleanze, dissimulando la sua presenza in tanti ambienti e contagiandosi a molti soggetti – sociali e individuali – che apparentemente ne sembrano immuni, trapiantandosi ovunque nel solco di una pervasiva corruzione. A quel richiamo franco e severo, l’organizzazione mafiosa oppose subito alcune reazioni molto violente: decise di lanciare i suoi minacciosi segnali contro la Chiesa tramite gli attentati del luglio 1993, a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. E, soprattutto, con l’agguato in cui cadde – il 15 settembre 1993 – il beato Pino Puglisi, parroco nel quartiere Brancaccio, a Palermo. Don Puglisi aveva ben compreso l’incompatibilità della mafia con il Vangelo e nei suoi confronti stava realizzando in parrocchia, tra la sua gente e con la sua gente, una concreta resistenza, evangelicamente ispirata e motivata. Quella sua resistenza cristiana parve ai mafiosi di Brancaccio un prolungamento – per loro intollerabile – del grido di Agrigento. Pochi mesi dopo, il 19 marzo 1994, anche la camorra diede feroce sfogo alla sua intolleranza nei confronti di ogni resistenza cristiana, uccidendo don Peppe Diana, parroco a Casal di Principe, in provincia di Caserta.
2.3. La mafia è una questione ecclesiale Il monito di papa Wojtyła innescò, dunque, una serie di drammatiche conseguenze. Tuttavia, non tutte di segno negativo. Tra quelle positive spicca la metamorfosi del discorso ecclesiale sulle mafie, che dal maggio 1993 in avanti s’è venuta sviluppando in molte Chiese del Meridione d’Italia. Il papa, ad Agrigento, si era rivolto direttamente ai mafiosi: a loro aveva indirizzato il suo appello alla conversione, con loro aveva parlato, senza più limitarsi a discutere riguardo al fenomeno mafioso. E aveva usato parole inedite, in verità mutuate dal messaggio biblico e dalla tradizione credente: conversione, diritto santissimo di Dio, giudizio divino. Riprendendo poi quell’appello, nell’udienza del giugno 1995, lo aveva fatto valere anche per tutti i siciliani, per infondere in loro un rinnovato vigore spirituale. In questi termini, egli faceva della mafia una questione anche ecclesiale ed ecclesiologica: sia perché stimolava la comunità ecclesiale e tutti i suoi membri, nessuno escluso, a costruire quella che aveva chiamato la «civiltà della vita» e a compiere un purificatore «esame di coscienza», sia perché richiamava gli stessi mafiosi – che non sono più veri cristiani, come ha detto papa Francesco nell’udienza del 28 marzo scorso in piazza San Pietro, o che lo sono soltanto anagraficamente – a ritornare al Signore e, quindi, all’esperienza credente e alla vita ecclesiale. Effettivamente, la mafia è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli che invece se ne lasciano dominare. Ed è un problema che ha dei contraccolpi anche sull’autoconsapevolezza della Chiesa e sull’immagine che di sé essa offre, allorché afferma con forza profetica l’irriducibilità delle opzioni mafiose allo stile evangelico, oppure quando si distrae e tace o, ancora, quando con un attento discernimento spirituale riconosce quali migliori figli suoi coloro che hanno lottato e lottano per la giustizia, fianco a fianco con chi è stato e resta nella trincea dell’impegno civile e statale contro le mafie.
3. Un peculiare discorso ecclesiale sulle mafie Reputiamo che quanto detto, venticinque anni fa, da san Giovanni Paolo II ad Agrigento, abbia fondato il tentativo di riformulare il discorso ecclesiale riguardo alla mafia e alle altre analoghe organizzazioni criminali che operano in Italia. Di questo tentativo sono espressione i pronunciamenti pastorali prodotti dalla Conferenza episcopale italiana e dalle varie Conferenze episcopali regionali, specialmente nel nostro Sud. Come vescovi delle diocesi siciliane, grati per l’importantissimo lavoro già svolto lungo questo delicato crinale dai nostri confratelli, vogliamo proporre qui alcune annotazioni a tal proposito.
3.1. Rompere il silenzio con parole nostre Il rinnovato discorso ecclesiale sulle mafie, che si è andato configurando negli anni scorsi, in particolare in Sicilia e nel resto del Meridione d’Italia, ha progressivamente permesso alla comunità credente, nel suo complesso, di prendere le distanze dal “silenzio” che pur era stato prima ambiguamente mantenuto “in pubblico” riguardo al fenomeno mafioso. E la ricerca storica ci ha messo ormai a disposizione molti elementi per valutare i motivi e per decifrare le modalità di tale “silenzio”, aiutandoci a smarcarci da interpretazioni un po’ troppo schematiche o unilaterali e, perciò, sbilanciate in questa o in quell’altra direzione. Non intendiamo soffermarci su questa controversa tematica. Ricordiamo tutti la veemenza con cui il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, predicando nel funerale del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso assieme alla moglie e all’agente di scorta il 3 settembre 1982, si scagliò contro la mafia e contro i suoi occulti fiancheggiatori. E ricordiamo i numerosi altri interventi, suoi e di altri vescovi meridionali, sulla stridente contrapposizione tra mafia e autentico cristianesimo. Ciò che preferiamo rilevare è che oggi rischiamo di passare dal silenzio alle sole parole, specialmente quando dimentichiamo di fare nostre – come san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci hanno insegnato e come Francesco continua a mostrarci – le parole del Vangelo, accontentandoci semmai di ripetere ciò che altri soggetti, meritoriamente impegnati nella lotta alle mafie, dicono con parole espressive delle loro specifiche competenze in ambito di volta in volta giuridico e giudiziario, politico, giornalistico, sociologico. Privo di un suo timbro peculiare, il discorso ecclesiale riguardante le mafie rischia così di essere più descrittivo che profetico. Le condanne pubbliche e le scomuniche più o meno esplicite, nella società mediatica in cui viviamo, hanno eco brevissima: giusto il tempo della “notizia” che suscitano. Poco male, se non passassero inascoltate nelle parrocchie e per le strade delle nostre città e dei nostri paesi. Non importa che i media non ne parlino o non ne parlino adeguatamente, o che qualche commentatore continui a criticare il silenzio “istituzionale” della Chiesa. Deve piuttosto preoccuparci che il nostro discorso soffra di una certa inefficacia performativa: cioè non giunga a interpellare e a scuotere davvero i mafiosi, da parte loro non certo interessati a leggere i documenti ecclesiali. Deve preoccuparci che il discorso cristiano sulle mafie sia rimasto troppo a lungo solo sulla carta e non si sia tradotto per decenni e non si traduca ancora in un respiro pedagogico capace di far crescere generazioni nuove di credenti. Avvalendoci di un lessico peculiare – del resto innestato con parole più laiche, a cominciare da quelle che esprimono il rispetto della legalità e il valore del bene comune –, dobbiamo immaginare una metodologia formativa per piccoli e grandi, per giovani e adulti, per gruppi e famiglie, nelle parrocchie e nelle associazioni, con una sistematica catechesi interattiva, il più possibile “pratica” e “contestuale”, attinente cioè ai problemi dell’ambiente in cui abitano coloro cui essa è destinata, per giungere a motivare e a trasmettere stili di vita coerenti al Vangelo e improntati alla giustizia e alla misericordia. E per contribuire così, per come ci compete, ai processi di rinnovamento avviatisi in seno alla società civile. È – questo – uno sforzo ulteriore che non si può più rimandare. Lo dobbiamo fare, tutti insieme, nelle nostre diocesi, anche per mettere il popolo credente nella condizione di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi: un omicidio di matrice mafiosa come quello del parroco di Brancaccio può apparire, agli occhi degli inquirenti e dell’opinione pubblica, come uno dei fatti di cronaca nera che accadono continuamente nelle grandi capitali della mafia. Ma, agli occhi di chi crede e legge la realtà alla luce del Vangelo, un tale omicidio è anche qualcos’altro, da interpretare – come ha scritto Mario Luzi in un suo poema dedicato al martire Puglisi – secondo la logica «inesplicabile della profezia». E l’assassinio del giudice Rosario Livatino, in servizio presso il tribunale di Agrigento, ucciso il 21 settembre 1990, può sembrare un omicidio “eccellente” come tanti altri, ma in verità – agli occhi di chi crede – può rivelarsi come un’autentica testimonianza martiriale: non a caso, san Giovanni Paolo II, durante la sua visita alla diocesi di Agrigento, riferendosi proprio al giovane magistrato, parlò dei «martiri della giustizia e indirettamente della fede». Sia don Puglisi, sia il giudice Livatino, erano uomini di poche parole: ma agivano fattivamente e vivevano in coerenza a ciò che dicevano. Entrambi sono testimoni esemplari della conversione dalle parole ai fatti che deve avvenire in seno alla Chiesa.
3.2. Recuperare il senso dell’appartenenza ecclesiale L’impegno pedagogico sarà utile, inoltre, per chiarire il significato della “scomunica” nei confronti dei mafiosi. Stiamo attraversando una grave crisi del senso di appartenenza ecclesiale. Assistiamo allo sdoppiamento dell’identità del “soggetto appartenente”, il quale nutre ormai una spiccata tendenza alla pluri-appartenenza o all’appartenenza trasversale rispetto a diversi e persino incompatibili “gruppi” o “luoghi” aggregativi. Si fa sempre più labile, anche in campo ecclesiale, il nesso tra appartenenza e senso dell’appartenenza, o tra credenza e appartenenza. Vale a dire che un singolo soggetto può prestar credito a ben precise “dottrine” e, tuttavia, far parte di gruppi o aggregazioni al cui interno la vita viene intesa e organizzata secondo modalità del tutto contrarie a ciò che quello stesso soggetto crede. Si può dare, perciò, il caso che uno professi il credo cristiano e al contempo accetti di diventare membro di un movimento settario alternativo alla Chiesa, magari perché ne ha un vantaggio economico o anche semplicemente emotivo. L’auto-referenzialità induce a sottovalutare o a misconoscere la fede confessata e professata, cioè vissuta e celebrata nella comunità ecclesiale, facendola risultare – assieme alle sue esigenze e alle sue implicazioni – come una dimensione secondaria e, al limite, superflua. Ne deriva una sorta di schizofrenia che lacera la coscienza del cristiano, oggettivamente “appartenente” alla Chiesa in forza del suo battesimo, ma soggettivamente non “partecipe” della vita ecclesiale. La fede perde il suo spessore esistenziale, diventa una presunzione arbitraria e refrattaria alla verifica comunitaria, si riduce a qualcosa in cui “si crede di credere”. Questo può essere il caso anche di chi si affilia alle organizzazioni mafiose, pur continuando a farsi quotidianamente il segno della croce e a frequentare la messa domenicale, oltre che le processioni patronali e le riunioni confraternali, senza però avvertire in tutto ciò alcuna contraddizione. Dobbiamo accettare la sfida – precipuamente formativa ed educativa – di risvegliare nelle persone il senso dell’appartenenza ecclesiale, se necessario mettendo in chiaro che c’è una scomunica de facto che entra “in vigore” anche a prescindere dalla scomunica de jure: consiste nell’autoesclusione dalla comunione con il Signore e con i suoi discepoli, cui si “condanna” chi preferisce incancrenirsi nel peccato e incamminarsi lungo i sentieri senza ritorno della corruzione. Se non si aiutano le persone a recuperare il senso dell’appartenenza alla Chiesa, l’esclusione giuridica dalla comunione ecclesiale, comminata con una sanzione canonica, rischierà di essere non compresa – prima ancora che temuta o contestata – da parte delle persone affiliate alla mafia. Alle quali, invece, occorre tornare a rivolgere insistentemente – «in ogni occasione opportuna e non opportuna» (2 Tm 4,2) – l’appello alla conversione lanciato da san Giovanni Paolo II. È la conversione la meta verso cui tutti dobbiamo puntare e verso cui anche i mafiosi devono avere l’umiltà e il coraggio di muovere i loro passi. Una conversione sincera, sperimentata in prima persona e in intima relazione con il Signore. Ma non intimistica, bensì vissuta secondo le regole penitenziali della Chiesa e i cui frutti di vita nuova siano inequivocabilmente percepibili e pubblicamente visibili. Dicendo questo, non temiamo di sbagliare. Come ci ha ricordato papa Francesco quest’anno – nell’Ottava di Pasqua, durante l’omelia nella celebrazione eucaristica della Divina Misericordia –, il Signore «è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie». Questo lieto annuncio di salvezza vale per tutti, nessuno escluso. Vale per tutti coloro che lo accolgono, confessando la propria miseria umana e consegnandola alla misericordia divina. Dunque, può e deve valere anche per i mafiosi ciò che Francesco ha predicato nella seconda domenica del tempo pasquale: «Quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì, il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose». Dobbiamo tornare a sperare che ciò sia davvero possibile, per tutti, anche per i mafiosi. E dobbiamo, quindi, tornare a fare questo annuncio proprio a loro, sfruttando ogni buona occasione: nel catechismo agli adolescenti, in cui anche i figli dei mafiosi devono essere coinvolti, non meno che negli altri momenti formativi dedicati ai giovani e agli adulti; nella celebrazione – sempre comunitaria – di sacramenti importanti per la vita ecclesiale come il battesimo, la prima comunione e la cresima; nelle omelie durante i funerali delle vittime di mafia, ma anche – dove e quando sia fattibile – durante le esequie di persone defunte che sono appartenute alla mafia.
3.3. Valorizzare e purificare la pietà popolare Sempre in prospettiva pedagogica, si staglia davanti a noi anche la sfida della pietà popolare. Tra i motivi dell’insorgere della mafia, alcuni studiosi hanno annoverato il totale fallimento dell’evangelizzazione, durante i secoli della modernità, in Sicilia: qui la prassi pastorale si sarebbe risolta nella religiosità popolare e sarebbe quindi stata impostata devozionisticamente, esposta ad usi strumentali e poco attenta alle esigenze dell’etica comunitaria. Tale spiegazione, pur registrando opportunamente le strumentalizzazioni della pietà popolare da parte di molti clan mafiosi locali e le connivenze omertose di alcuni preti ancorati a una concezione meramente esteriore del vissuto credente, non prende in debita considerazione la storia di santità “sociale” straordinariamente fiorita tra Otto e Novecento nella nostra regione. È un fatto che, dove ha abbondato la presenza negativa di criminali e mafiosi, ha sovrabbondato nondimeno la presenza positiva di personalità spirituali che operosamente si sono fatte interpreti delle implicazioni sociali della fede cristiana, spendendosi con grande carità per rivendicare il diritto di tutti, specialmente dei più poveri, a vivere con dignità in questa nostra terra. Anche quest’altra storia è frutto dell’evangelizzazione in Sicilia. E pure ai nostri giorni ci sono, nelle nostre città e nei nostri paesi, persone che vivono esemplarmente il Vangelo, dimostrando che esso è capace di trasformare in meglio il mondo e di trasfigurare le cose più brutte in una nuova bellezza. A queste persone, non meno che ai santi del passato, dobbiamo guardare con attenzione, per assimilare la loro testimonianza e sentirci spronati a contribuire a che il Vangelo davvero si riveli luce che illumina di senso la fatica dei buoni, lievito che dà spessore alla nostra realtà, sale che le infonde sapore. È per noi pastoralmente utile valorizzare le risorse spirituali della pietà popolare, segnalate anche da papa Francesco nel n. 69 dell’Evangelii gaudium: «Ogni cultura e ogni gruppo sociale necessita di purificazione e maturazione. Nel caso di culture popolari di popolazioni cattoliche, possiamo riconoscere alcune debolezze che devono ancora essere sanate dal Vangelo: il maschilismo, l’alcolismo, la violenza domestica, una scarsa partecipazione all’eucaristia, credenze fataliste o superstiziose che fanno ricorrere alla stregoneria, eccetera. Ma proprio la pietà popolare è il miglior punto di partenza per sanarle e liberarle». Quell’«eccetera» seminato nel testo appena citato, ci sembra possa rimandare anche ai fenomeni mafiosi. Non possiamo rassegnarci a veder degenerare le varie forme di pietà popolare in espressioni di mero folklore, manovrabile in varie direzioni, anche da parte delle famiglie mafiose di quartiere, in quest’ultimo caso soprattutto per fini di visibilità e di legittimazione sociale. Non possiamo tollerare che le festività di Cristo Gesù, di Maria Madre sua e dei suoi santi degenerino in feste pseudo-religiose, in sagre profane, dove – nella cornice di subdole regie malavitose – all’autentico sentimento credente si sostituiscono l’interesse economico e l’ansia consumistica, e dove non si tributa più onore al Signore ma ai capi della mafia. Dobbiamo tornare a preoccuparci e a occuparci della pietà popolare, interpretandola non solo come fatto sociale ormai anacronistico, bensì come fatto interno alla vita della comunità credente, lì dove la religiosità si dimostra più precisamente pietà popolare, custode di quello che il Concilio, in Lumen gentium n. 12, chiama sensus fidei, l’«istinto» credente di ogni battezzato. Dobbiamo riscoprire l’importanza grande della pietà popolare come esperienza mistica comunitaria e come riserva di valori da custodire e incrementare per dare adito a un «nuovo umanesimo mediterraneo», in cui emerga l’intreccio fra il dirsi divino e la coscienza umana, fra la tenacia della fede e il vigore dell’ethos, come abbiamo scritto già nel 2012, nella nota pastorale Amate la giustizia, voi che governate sulla terra.
4. Prolungare l’eco dell’appello Desideriamo far riecheggiare ancora nelle nostre Chiese, in Sicilia e a partire dalla Sicilia, l’appello alla conversione lanciato da san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi. Vogliamo farlo riecheggiare dentro i nostri cuori e lasciarlo riverberare nei nostri sguardi e sui nostri volti. Soprattutto, siamo decisi a incarnarlo nella nostra esistenza credente, nella nostra prassi pastorale, nel nostro personale e comunitario impegno civile, nella nostra vita sociale.
4.1. Una parola rivolta ai familiari delle vittime di mafia L’eco del grido di Agrigento giunga, da parte nostra, innanzitutto a voi, familiari delle vittime della mafia. Condividiamo il vostro profondo dolore. E a voi affidiamo la nostra gratitudine nei confronti dei vostri figli, dei vostri genitori, delle vostre sorelle e dei vostri fratelli, delle vostre mogli e dei vostri mariti, che sono caduti mortalmente per la violenza – arrogante e feroce – della mafia e dei mafiosi. Grazie per l’amore che hanno nutrito verso la Sicilia e verso tutti noi siciliani. Grazie per la fiducia che hanno riposto nella giustizia: non quella «molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato e dall’altro», bensì la «vera giustizia», quella di cui si deve avere fame e sete e per la quale si deve lottare, giungendo a sacrificarsi per essa, come scrive papa Francesco nel n. 78 di Gaudete et exsultate. Grazie per la speranza in un futuro nuovo e migliore, che hanno custodito nel loro animo e che hanno testimoniato con il loro impegno, con le loro fatiche, con le loro battaglie, con il loro lavoro. Grazie per l’esempio che ci hanno lasciato in eredità con il loro amore, con la loro fiducia, con la loro speranza.
4.2. Una parola rivolta alle persone credenti e di buona volontà L’eco del grido di Agrigento giunga, inoltre, all’intero popolo siciliano: a coloro che vivono – pur fra tante umane debolezze – l’esperienza credente nelle nostre comunità ecclesiali; ai fratelli e alle sorelle che la vivono in comunità di altre tradizioni confessionali, in particolare agli amici evangelici e valdesi che si sono sempre distinti per la loro vigile coscienza critica di fronte alla protervia mafiosa; a tutte le persone di buona volontà che condividono con noi e ci testimoniano a loro volta il valore del bene comune. La Chiesa è una «complessa realtà», come insegna il Concilio in Lumen gentium n. 8. E un profilo di questa sua peculiare complessità si coglie nel suo essere Chiesa santa di peccatori. Essa è santa per la presenza dello Spirito Santo, che la anima dal di dentro e la rende tempio di Dio, sacramento del Signore. Ma è anche costituita da esseri umani, sempre bisognosi del perdono divino in quanto pur sempre peccatori. Per questo la conversione rimane la sua prima vocazione: essa è chiamata a convertirsi continuamente. Questa conversione dev’essere effettiva e concreta: non solo dichiarata a parole, ma anche vissuta con i fatti. Il beato Pino Puglisi, ucciso dalla mafia proprio venticinque anni fa, in una catechesi ai giovani di Brancaccio, il 18 febbraio 1993, qualche mese prima della visita pastorale di papa Wojtyła, diceva che era ormai giunto in Sicilia il tempo di «rimboccarsi le maniche», di passare «dalle parole ai fatti», dalle prediche all’azione, di mettere in atto una «controproposta» rispetto alla «cultura della illegalità» promossa dai mafiosi, uno «stile di vita» fatto insieme di aspirazioni civili e ispirazioni evangeliche, di «dignità umana» e di «amore cristiano». Tempo di iniziare comportamenti rinnovati e convertiti, che siano «segno» inequivocabile della volontà di riscatto dalla schiavitù del male e della mafia. Il suo avvertimento conclusivo è ancor oggi un pungolo per tutti noi: «Se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto».
4.3. Una parola rivolta agli uomini e alle donne di mafia Anche fino a voi, fratelli e sorelle che vi trovate invischiati nelle paludi della mafia, desideriamo prolungare l’eco del monito di san Giovanni Paolo II: «Convertitevi!». A voi – che siete stati i primi destinatari di quell’appello profetico – ci rivolgiamo, con tono sereno e serio, per ribadirvi pure l’invito rivolto da papa Francesco, in un’udienza del 21 febbraio 2015, a chi come voi vive nel male e nel peccato, compiendo gravissimi reati e violando le giuste leggi umane oltre che i comandamenti divini: «Aprite il vostro cuore al Signore. Il Signore vi aspetta e la Chiesa vi accoglie». In quest’ultimo appello dovete risentire ciò che già il beato Pino Puglisi diceva in una sua omelia del 20 agosto 1993, nella chiesa parrocchiale di San Gaetano, a Palermo: egli, rivolgendosi immediatamente ai mafiosi di Brancaccio e idealmente a tutti i mafiosi, vi ricordava che anche voi siete battezzati e, perciò, «figli di questa chiesa»: «Mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile». Noi, pastori delle Chiese di Sicilia, facciamo nostre queste parole del martire don Puglisi e le ripetiamo a voi: accoglietele come un invito alla conversione e come un annuncio di speranza cristiana valido sempre e per tutti.
5. Un’ultima parola da rivolgere tutti insieme al Signore giusto e misericordioso Signore nostro, Tu sei tutto: Tu sei giusto! Tu sei più di tutto: Tu sei misericordioso! Ti chiediamo il perdono: per le nostre lentezze, per i nostri ritardi, per le nostre distrazioni, per i nostri silenzi. «Convertici, o Signore, e noi ci convertiremo» (Lam 5,21). Ti chiediamo la luce: cioè la capacità di vedere e di decifrare la realtà in cui viviamo, di discernere tra il bene e il male, tra la verità e l’errore, tra la vita e la morte. Ti chiediamo il coraggio: per vivere la giustizia e scegliere la santità. Ispira le nostre decisioni, rafforza la nostra voce, sostieni le nostre azioni, rendi fecondo il nostro impegno. Signore, Tu sei tutto e più di tutto. Tu sei giusto e misericordioso!
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