PAOLA GERACI:
ECCO PERCHE’ PADRE PINO PUGLISI ERA PER CRISTO A TEMPO PIENO

Il poster del Centro nazionale vocazioni utilizzato da padre Puglisi: un orologio senza lancette e lo slogan “Per Cristo a tempo pieno”

Paola Geraci: una donna che ha consacrato la sua vita al Signore, medico e volontaria, impegnata nella Diocesi, con 15 anni di direzione spirituale con padre Pino Puglisi, il suo punto di riferimento. Il 15 settembre 1993 si trovò all’ospedale Buccheri La Ferla a lavare e comporre pietosamente la salma del sacerdote ucciso dalla mafia quella sera. Come le donne e coloro che prepararono il corpo insanguinato di Cristo, deposto dalla Croce, per il sepolcro. Ecco la sua straordinaria testimonianza di quei momenti e poi, capitolo per capitolo, la descrizione del cuore dell’eredità di padre Pino. Egli era “per Cristo a tempo pieno”, come si leggeva in un piccolo poster vocazionale che apprezzava tantissimo e raffigurava un orologio senza lancette. Anche per questo disse sì al suo vescovo che lo chiamò a Brancaccio: era il settimo sacerdote al quale veniva fatta la proposta….Ma Padre Pino ebbe sino alla fine la fede in un Dio che è Amore, che resta sempre con noi e che ci dà coraggio in ogni momento dell’esistenza, anche quelli più bui.

di Paola Geraci

Direttore Ufficio per la pastorale della salute, Palermo

Il duo comico Ficarra e Picone, nello spettacolo teatrale su P. Puglisi dal titolo “Ma chi ce lo doveva dire” racconta che esiste “un parto per uccisione” e P. Pino Puglisi lo ha vissuto. Posso affermare di essere stata testimone che questo “parto” è avvenuto veramente, anche se, per questo, non ho dovuto ricorrere alla mia specializzazione di medico

A sera avanzata del 15 settembre 1993, sono arrivata all’Ospedale Buccheri La Ferla, avvertita da una amica che vi lavorava ed era di turno, ed essendo conosciuta sono entrata al pronto soccorso: qui sono stata invitata a restare dalla dottoressa Paola Pugnetti, medico legale di turno quella sera, che si è sentita sostenuta dalla mia presenza, essendo lei l’unica donna presente ed essendoci una popolazione maschile di preti, magistrati, forze dell’ordine. Anche il morto era un uomo.

P. Puglisi era disteso sulla barella e sembrava che dormisse: il “danno” era a livello della nuca. Constatato l’avvenuto “parto”, sono uscita per comunicarlo alla folla e ho proposto di andare nella chiesa per fare quello che P. Puglisi avrebbe fatto: aprire il Vangelo. Altra conferma dell’avvenuto “parto” ho potuto dare perché sono stata presente all’autopsia di Padre Puglisi, insieme con Santina Di Gangi, ostetrica nel mio stesso reparto, la Clinica Ostetrica dell’Università di Palermo al Policlinico, e con Giuseppe Carini, lo studente di medicina di Brancaccio, che per la sua conversione, grazie al rapporto col Parroco, è diventato testimone di giustizia, permettendo di conoscere le dinamiche che avevano portato i mandanti a decidere l’uccisione. Giuseppe frequentava come studente l’Istituto di Medicina legale dell’Università di Palermo al Policlinico, e P. Puglisi gli aveva detto ”quando toccherà a me, non lasciarmi solo”.

Completati i tempi dell’atto medico, lo abbiamo lavato, come si fa con un bambino appena nato, che è sporco di sangue, asciugato, accuratamente vestito e rivestito dei paramenti. Le donne, che andavano per imbalsamare il corpo di Gesù e non lo hanno trovato, sono testimoni della risurrezione. Noi abbiamo lavato il corpo di P. Puglisi morto e siamo testimoni che è morto per testimoniare la forza dell’amore del Padre, che ha fatto risorgere il Figlio e farà risorgere ogni uomo. Questa è stata l’ultima volta che ho visto P. Puglisi, morto.

La Sepoltura di Cristo di Tiepolo

1. “Me lo aspettavo”. In sinossi con la Parola di Dio

Comincio dalla fine, cioè dalla sera del 15 settembre 1993, quando P. Pino Puglisi pronuncia il suo consummatum est (Gv 19,30): “me l’aspettavo”.

E come il consummatum est pronunciato da Gesù, nel buio della fine della sua vita, quando il sole si oscurò, si apre sulla luce infinita della Pasqua, anche per P. Puglisi le parole ultime, che precedono il buio della sua morte, avvenuta nel buio della sera, si aprono sulla luce del suo martirio, che, innestata nella luce di Cristo, illuminerà innanzitutto la Chiesa di Palermo e tutta la Chiesa… se ne seguiamo le orme.

«Tutto è compiuto»(Gv 19,30) è la traduzione del consummatum est, che ci riporta il Vangelo di Giovanni, a significare che il progetto di Dio impregnato di Amore, anche se non facilmente comprensibile, si è realizzato pienamente: la morte di Gesù, che agli occhi di coloro che lo hanno condannato e crocifisso chiude un cerchio, che a loro parere dovrebbe fare tacere per sempre il Rabbì di Galilea, piuttosto apre una porta sulla vita eterna, vincendo tutte le espressioni del male compresa la morte.

Ricordiamo san Paolo: «Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi». (1 Cor 15,25-27). Anche per P. Puglisi i mafiosi hanno pensato la stessa cosa: “uccidiamolo e lo faremo tacere”! Ma hanno avuto corta memoria: non hanno ricordato che il sangue degli innocenti uccisi grida più della loro voce di quando erano in vita, come dice un Padre della Chiesa.

Un’immagine dei funerali di Padre Puglisi con i bambini dietro la bara e il Cardinale Salvatore Pappalardo

Quanto detto mi richiama alcuni testi biblici: «Fratelli, vi siete accostati … a Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele». (Eb 12, 22-24).

«Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?”.Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”. E lui: “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”» (Ap 7,13-14).

«Ma essi lo hanno vinto [l’accusatore] per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio; poiché hanno disprezzato la vita fino a morire»(Ap 12,11)

P. Puglisi partecipa al sangue purificatore di Gesù. Sono convinta che le parole “me l’aspettavo” esprimano la conclusione di un drammatico percorso interiore: P.Puglisi ha vissuto certamente l’angoscia, anche se dalle testimonianze non risulta che l’abbia confidato a qualcuno. Il “pastore” ha tenuto tutto per sé, cercando anzi di allontanare fisicamente le “sue pecore” cioè altri che potevano essere nel mirino dell’arma dei persecutori mafiosi. Ma l’angoscia che ha vissuto, certamente non lo ha allontanato dall’amore di Cristo. Come san Paolo anche P. Pino può dire: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. lo sono infatti persuaso che né morte né vita,… né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm8, 35-37).

2. II coraggio delle scelte

Come ha potuto sopportare l’angoscia P. Puglisi? Io credo che P. Puglisi abbia sopportato l’angoscia perché nella sua vita ha fatto “esercizio di coraggio nelle scelte”, a cominciare da quando un anziano sacerdote gli domanda: “perché non diventi sacerdote?”.

E poi la prima esperienza di essere parroco a Godrano: con il suo umorismo arguto soleva dire: “sono il Parroco più altolocato”, riferendosi al fatto che il Comune di Godrano è il più alto della Diocesi. Gli anni di presenza a Godrano, un paese dove la mafia, con faide familiari che seminavano morti e fomentavano rancore, e la presenza dei fratelli protestanti, lo hanno messo alla prova nel fareesercizio di coraggio nelle scelte.

A differenza di don Abbondio, di manzoniana memoria, che dice “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”, P. Puglisi sperimenta che “se uno il coraggio non ce l’ha, se lo può fare dare, da Cristo”.

Puglisi aderisce completamente al modello che Gesù è stato ed è e che san Paolo incarna. Ha incarnato quanto san Paolo diceva e dice esortando i cristiani:«Siate forti nella tribolazione» (Rm 12,12). Sperimenta quanto insegnava e insegna ancora l’Apostolo «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26). Il coraggio di san Paolo nelle avversità, la sua tenace resistenza nelle persecuzioni, la sua fermezza nell’affrontare pericoli di ogni sorta per evangelizzare, costituiscono un modello di fortezza morale, che P. Puglisi fa suo. Questa fortezza ha in Dio la sua sorgente: si tratta della «potenza straordinaria che viene da Dio» (2 Cor 4,7), e che ci fa riconoscere che « noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati…portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4,8-11).

Il 14 settembre 1993, giorno liturgicamente dedicato all’Esaltazione della Croce, “3P” celebra l’Eucaristia a Boccadifalco, dove da tre anni segue le ragazze madri ospitate dalla “Casa Madonna dell’Accoglienza”, una casa alla periferia di Palermo, sostenuta dalle Assistenti Sociali Missionarie, incarico che non ha lasciato nonostante fosse Parroco a Brancaccio. Nell’omelia, intensa e semplicissima, spiega il “sudar sangue” di Cristo: «Quando noi abbiamo paura o proviamo una sensazione intensa di calore, scattano le contrazioni sotto la pelle. Lì ci sono come delle borsette piene che si svuotano e fanno uscire il sudore. Ma quando la contrazione è più forte, perché la paura è diventata angoscia insopportabile, si rompono i capillari. Ecco perché si dice che Cristo sudò sangue… Sudò sangue per la paura umana del dolore che l’attendeva. E questo ce lo fa sentire ancora di più come fratello. Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio. Egli ha dato la sua vita per noi e anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli». Il giorno dopo P. Puglisi questo sangue lo versava …

Il “me lo aspettavo” che P. Puglisi pronuncia richiama lo scorrere del tempo, tempo che è prima kronos e che nella lettura di fede diventa kairos. Tutto il tempo di P. Puglisi era per Dio. Faccio una parafrasi di sue parole in queste: “Finora ho lavorato per te, Signore; adesso, che è giunta la mia ora, che Tu hai preparato per me e che mi aspettavo, il mio tempo terreno si conclude, entro nella tua eternità”. Come non risentire san Paolo: «nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14 7-8).

3. Per Cristo a tempo pieno

Padre Puglisi in un incontro vocazionale con i giovani in una foto di fine anni Settanta. Alle sue spalle sulla destra il poster “Per Cristo a tempo pieno” con l’orologio senza lancette

Cosa significa l’espressione Per Cristo a tempo pieno? Significa che «ogni attività, Signore, ha in Te l’inizio e in Te il compimento», come diciamo in una orazione della liturgia delle ore. Per Cristo: la motivazione che come un filo d’oro unificava tutte le giornate di P. Pino, tutte le attività delle sue giornate, comprese quelle legate alle esigenze della vita personale, alle quali P. Puglisi non era insensibile, ma a cui dedicava poco tempo, come i pranzi per esempio, a meno che non ci fossero coinvolti altri. Usava fare le vacanze estive, ma non erano mai solo fine a se stesse: si intrecciavano con l’occasione di visitare amici fuori Palermo, o erano in coda a qualche Convegno formativo. 3P non mostrava squilibrio nelle attività: la sua vita era cadenzata da un ritmo intenso ma senza ansia. P. Puglisi faceva fruttare al massimo i suoi rapporti interpersonali, anche per moltiplicare il suo tempo, coinvolgendo molti di coloro che avevano relazione con lui nelle iniziative che realizzava. Era un meraviglioso moltiplicatore. Tutto ciò, purtroppo, aveva un neo: P. Puglisi spesso “portava ritardo” negli appuntamenti, creando difficoltà a chi aspettava, ma sua giustificazione, valida purtroppo solo per un verso, era che non poteva interrompere un colloquio per essere puntuale al successivo.

Ma certamente è stato puntuale ai momenti fondamentali della sua vita!

3.1 L’orizzonte vocazionale della vita di P. Puglisi

Un altro fattore, che a mio parere ha giocato nella vita e nella morte di P. Puglisi è avere vissuto tutta la vita nell’“orizzonte vocazionale”. L’orizzonte vocazionale è stato una categoria mentale e spirituale sperimentata all’inizio della sua vita di presbitero, e che si è approfondita con la sua riflessione e con l’esperienza di Direttore del Centro vocazionale diocesano e regionale. Un Direttore potrei dire appassionato, che “applicava” la categoria vocazionale a tutte le sue attività, tenendo presenti i testi conciliari, di cui è stato un attento conoscitore. La serietà e l’impegno con cui ha portato avanti questa responsabilità dice quanto importante ritenesse la dimensione vocazionale.

Non considerava un caso il suo essere prete, non erano frutto del caso tutte le esperienze vissute da presbitero, ma ogni richiesta era una vocazione, una chiamata a cui P. Puglisi rispondeva, vivendo l’obbedienza.

Mi consta personalmente come accettò “la chiamata” del Vescovo ad andare parroco alla Parrocchia San Gaetano a Brancaccio.

Me lo comunicò poco dopo, durante un colloquio. Alla mia domanda che esprimeva tanta perplessità per la molteplicità di impegni che già sosteneva, mi rispose: “Sono stato il settimo a cui il Vescovo ha fatto la proposta, ma quando il Vescovo chiama non si può dire di no: a Lui ho promesso ubbidienza nel giorno della ordinazione”.

In forza dell’ubbidienza P. Puglisi è diventato martire: e questo non è un castigo, come qualcuno che non conosce la logica del Vangelo potrebbe dire, ma un premio per chi vive la testimonianza sino all’estremo!

3.2 Serietà e impegno

Serietà e impegno sono, direi, una cifra o meglio la cifra dell’agire di P. Puglisi. Una serietà che non ne faceva una persona seriosa, anzi, aveva inaspettate battute spiritose e argute. Un impegno che non lo rendeva rigido nella gestione della organizzazione, dove prevaleva la relazione diretta, empatica, con i più giovani e con i più anziani, sempre nel più pieno rispetto della persona con cui era in contatto, pronto ad ascoltare i pareri anche dei più inesperti, disposto a promuovere le persone che con lui collaboravano, senza preoccuparsi di essere “il Direttore”. Alla luce dell’esito della sua vita sembra una profezia quanto dice nell’agosto del ’91, partecipando ad un convegno di “Presenza del Vangelo” a Trento, in una relazione su “Testimoni della speranza”. «Il discepolo è testimone, soprattutto testimone della resurrezione di Cristo… Certo, la testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio, infatti testimonianza in greco si dice “martyrion”. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza. San Matteo 5,11-12a ci riferisce le parole di Cristo: “Sarete felici quando vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male di voi per causa mia; rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. Per il discepolo-testimone è proprio quello il segno più vero che la sua testimonianza è una testimonianza valida…Ricordate San Paolo:”Desidero ardentemente persino morire per essere con Cristo”. Ecco, questo desiderio diventa desiderio di comunione, che trascende persino la vita, che va al di là della vita stessa, anzi quasi può sembrare una porta chiusa da aprire, per potere aprirsi a questo splendore di comunione con Lui».

Se non si ha responsabilità e impegno nell’agire, queste parole non albergano nella mente e in P. Puglisi albergavano non solo nella mente ma anche nel cuore.

4. Lo stile di accompagnamento di P. Puglisi attraverso la mia esperienza

Una foto scattata con padre Puglisi a Matera ad un convegno del movimento Presenza del Vangelo, durante una escursione nella città antica: sullo sfondo le decorazioni delle chiese rupestri. Con Paola Geraci (a sinistra) c’è Diana Savarino.

La richiesta di questa riflessione mi ha impegnata a cercare nella mia memoria lo stile dell’accompagnamento di P. Puglisi, che ho sperimentato e che ho visto agito in altri.

Quando io ho fatto la mia scelta vocazionale, pur conoscendolo, non gli ho chiesto niente, ma poi, dai miei 30 anni ai 44, quando ormai vivevo la mia vocazione e cominciavo a sentirne le difficoltà, P. Pino è stato il mio confessore e direttore spirituale.

Puglisi non era molto “direttivo”, nel senso che non dava indicazioni immediate che partivano da lui. Faceva sì, invece, che le direttive nascessero dentro il colloquio con la persona, nella valutazione dei fatti e nel confronto di questi con la Parola. Era un uomo di speranza e che apriva alla speranza. Quando talvolta, alla fine della confessione, io commentavo, esprimendo la fatica che sentivo: “ora devo ricominciare daccapo”, lui serenamente diceva: “non daccapo, da dove eri giunta”. Non riesco a ricordare quando e come l’ho conosciuto, ma certamente attraverso le Assistenti Sociali Missionarie.

Mi sono laureata nel 1973 e mentre stavo facendo la specializzazione in Ostetricia e Ginecologia, (scelta come risposta ad una vocazione, ancora inconsapevole, come ho potuto capire dopo) avevo cominciato a collaborare con gli operatori della Pastorale familiare diocesana, che aveva avuto un forte impulso, per volontà del Cardinale Pappalardo. Tenevo incontri sulla sessualità, sulla vita e sulla regolazione della fertilità nei corsi prematrimoniali e collaboravo con il consultorio familiare “La Casa”, costituitosi sempre per volere del Cardinale.

Ritornando indietro con il pensiero, penso che sia stato il fatto che mi avvicinavo a tutte le problematiche inerenti la vita nascente e tenevo già incontri su tematiche relative a quella che si chiamava “educazione sessuale”, a farmi entrare in contatto con P. Puglisi.
Lui era già parroco a Godrano e molti giovani del Paese, anche grazie ai suoi interventi presso i genitori, venivano a studiare a Palermo e avevano un punto di riferimento e di incontro nel Centro sociale del Villaggetto di Romagnolo, dove era presenza fissa l’allora giovane e sempre carissima Assistente sociale missionaria Agostina Aiello, che è stata messa, secondo me per progetto di Dio, lungo il percorso della vita di P. Puglisi, anche perché fosse possibile oggi avere testimonianze dell’operare di 3P.

Non ricordo quando né come P. Puglisi mi abbia fatto la richiesta di collaborazione, ma ricordo che, negli ultimi mesi del 1976, mentre si preparava il magnifico Convegno “Evangelizzazione e promozione umana”, il primo Convegno Ecclesiale della Chiesa italiana e riproposto in Diocesi per volontà del Cardinale Pappalardo, nel tardo pomeriggio del martedì, andavo al Centro sociale e incontravo un gruppo di giovani lavoratori e studenti di entrambi i sessi, fra cui alcuni fidanzati (poi sposati) e altri che hanno seguito la vocazione presbiterale o religiosa. Con l’aiuto di alcuni poster, che mi hanno accompagnato per anni e anni, prima delle diapositive, che in certi posti erano un lusso, parlavo della persona umana, della sessualità, del suo valore intrinseco e del suo valore nella relazione interpersonale.
Penso che P. Puglisi sia stato “un profeta” perché in quegli anni non era frequente che si trattassero questi argomenti negli ambienti cattolici. Pochi lo facevano e P. Puglisi era tra questi.

Lui non era sempre presente: veniva ogni tanto ma i partecipanti sapevano dove trovarlo, in paese o in alcuni giorni stabiliti lì, al punto di incontro.

Ho fatto la “puntualizzazione” della mia scelta vocazionale proprio in quel luogo, dopo un incontro con i giovani, la sera del martedì 25 gennaio 1977, restando a cena ospite di Agostina, per parlare con un amico che partecipava attivamente nel Movimento Presenza del Vangelo (allora Crociata del Vangelo) e che frequentava il Centro sociale, per continuare con i giovani l’esperienza dei Cenacoli, iniziata a Godrano durante le missioni promosse dal parroco Puglisi. Sapevo della sua ricerca vocazionale e gli chiesi di incontrarlo.

Mi sono chiesta più volte: perché non ho parlato con il sacerdote con cui mi confessavo in quel periodo? Non lo so e non mi ricordo neanche chi fosse. Sottolineo questo fatto per dire che non sempre sono i presbiteri il canale del discernimento vocazionale: lo sappiamo tutti che anche i laici sono “abilitati” a questo prezioso e delicato servizio.

L’incontro con questo amico, poi diacono permanente, piuttosto che un dialogo fu un monologo: io gli spiegavo di avere capito che il Signore mi chiedeva la consacrazione a Lui, non in un convento ma mettendo il mio lavoro a servizio del Suo Regno.
Avevo sperimentato che molte persone, in certe situazioni esistenziali particolarmente importanti e difficili, non potevano o non volevano essere raggiunti dal sacerdote ma accoglievano, e anzi cercavano, il medico ostetrico-ginecologo. Gli dissi pure che sapevo, per averlo letto tempo prima in un trafiletto di Famiglia Cristiana, che questa forma di consacrazione nel mondo si chiamava Consacrazione negli Istituti secolari. A quel punto lui mi disse che ce n’era uno vicino a noi, nato dall’intuito spirituale che lo Spirito aveva dato a padre Placido Rivilli frate minore, il quale oltre che al Movimento “Crociata-Presenza del Vangelo” aveva dato vita anche all’“Istituto Secolare delle Missionarie del Vangelo”, di cui in quegli anni era responsabile generale, la grande amica di P. Puglisi, Lia Cerrito. Donna Lia, come lui la chiamava. Così cominciò la storia della seconda parte della mia vita.

4.1 L’inizio del cammino di direzione spirituale

Quando fu il momento opportuno, chiesi a P. Puglisi di confessarmi con lui e intraprendere il cammino di direzione spirituale. Ho sperimentato che P. Puglisi, più che “direttore” fosse “accompagnatore”, in un cammino condiviso di discepolato, come una persona che ha fatto più strada nella sequela Christi e che può aiutare, chi ne ha fatta di meno, a riflettere, sulla esperienza di bene e di male, nella opzione di fondo di volere seguire e realizzare la volontà di Dio. Ricordo che un giorno, dopo avere discusso su alcuni “fatti miei”, concludevo:«P.Puglisi temo di essermela inventata questa vocazione!». E lui serenamente: «Tu credi che ogni vocazione cominci pura? Si va purificando lungo la strada della vita».

Il Cardinale gli aveva dato l’incarico di guidare la neo-formata comunità vocazionale: con un gruppo di adolescenti si era trasferito in un antico bel palazzo donato alla Diocesi e il primo incontro, lo ricordo benissimo, si realizzò in una sala con tetto e pareti affrescate, con una grande finestra che si apriva su di un giardino, e che aveva come arredamento solo due sedie: una per lui e una per me, poste al centro. Ora leggo questo fatto come espressione della sobrietà che lo caratterizzava: usare le cose offerte dalla Provvidenza senza sovraccaricarle di altro.

Possiamo leggere in questo, come in filigrana, una caratteristica spirituale francescana? Forse sì, avvalorata anche dal profondo rapporto col Vangelo vissuto nella sua vita e dalla mitezza che lo caratterizzava.
Alla mitezza ho pensato il giorno dei suoi funerali: una folla immensa lo seguiva, richiamata non solo dalla conoscenza personale ma frutto immediato della sua morte. E sentivo le parole del Vangelo di Matteo 5,5: “beati i miti perché possederanno la terra”: mi pareva che quella folla fosse “il possedimento” che Dio concedeva ad un suo figlio, ministro della Sua chiesa, che aveva incarnato quella beatitudine in tutta la sua vita e in maniera speciale alla fine “ come agnello mansueto …” (Ger 11,18).

Un altro ricordo suscitato da qualcosa ascoltato in questi giorni, come una piccola postilla a proposito di P. Puglisi e del salotto. P. Puglisi aveva il salotto o meglio, nella casa dei suoi genitori, con cui viveva e dove rimase a vivere dopo la loro morte, c’era un salotto stile anni ’60, con sottili piedini di metallo dorato e la tappezzeria di velluto di lana rosso, che accoglieva chi vi si sedeva. Io l’ho usato molte volte perché, avendo entrambi giornate molto intense, dedicavamo le ore serali, a casa sua, per gli incontri di direzione spirituale.

Uno degli argomenti che ritornavano nei nostri colloqui era la gestione del tempo e la possibilità concreta di partecipare alla Messa quotidiana. Cosa mi diceva P. Puglisi? «Se devi arrivare a Messa trafelata, con la mente ancora nella situazione che hai appena lasciata, partecipando alla Messa come a qualcosa fra le altre innumerevoli attività della tua giornata, è meglio che ti fermi dove sei e fai mezz’ora di meditazione sul testo del Vangelo del giorno». Invito a tralasciare la Messa? Assolutamente no! Piuttosto convinzione che la Parola di Dio non viene dopo l’Eucaristia ed è luce per i passi a qualunque età e in qualsiasi condizione di vita.

5. E ancora coraggio… l’annuncio di tutte le vocazioni

Non ricordo se la parola coraggio facesse parte dei miei pensieri durante il tempo della mia scelta vocazionale: sentivo piuttosto un grande desiderio di infinito, molta gioia nel cuore e tanta curiosità per il futuro. Penso che si possano sintetizzare questi sentimenti con una sola parola: innamoramento!

P. Puglisi aveva capito che la comunità ecclesiale, potrebbe e dovrebbe un “grembo” per la crescita non solo spirituale ma innanzitutto umana della persona. Da questa convinzione sono nati i campi vocazionali, luogo di esperienza per capire il senso della vita. Fare capire il senso della vita ai giovani era l’obiettivo prioritario della Pastorale vocazionale di P. Puglisi. Il 1 Febbraio 1987, ad un convegno P. Puglisi parlando sul tema “La vocazione dell’uomo”, dice: «Qual è il valore ed il senso della mia esistenza? E, più in generale, “Chi è l’uomo?” Ecco il perenne interrogativo: “Chi sono io? Qual è la mia identità? La mia vita ha un senso? Cioè: lo ha da prima, glielo do io, lo danno gli altri? Quale il senso di questa vita?”
È l’interrogativo al quale hanno cercato di rispondere da sempre gli uomini… La risposta cristiana è questa: la vita è vocazione all’Amore (che è Dio stesso). Vocazione all’Amore, quindi vocazione alla comunione con Dio. È nella comunione con Dio la pienezza di vita dell’uomo.
Questa comunione con Dio si realizza attraverso la comunione con gli altri uomini e questa comunione con Dio e con gli altri uomini, già da ora, è una caparra di quello che sarà la gioia senza fine, quando saremo ammessi a goderne in un modostraordinario, inesprimibile adesso.
Tutti quanti, dunque, secondo l’espressione di un teologo nostro siciliano, padre Consoli, rettore dello studio teologico di Catania, tutti quanti siamo come l’unico volto del Cristo. Tutti diventiamo figli nel Figlio, Cristo. Come in quel volto che c’è raffigurato a Monreale, ciascuno di noi è come una tessera di questo grande mosaico. E quindi tutti quanti dobbiamo capire qual è il posto che dobbiamo occupare perché questo volto acquisti la sua bellezza, e sia, direi, attraente per tutta l’umanità. Tutti quanti dobbiamo capire qual è il nostro posto e dobbiamo aiutare anche gli altri a capire qual è il proprio, perché si formi l’unico volto del Cristo, splendente della sua Gloria».

Per realizzare questo P. Puglisi ripeteva nel 1990: «Occorre evangelizzare la vocazione a tutti i credenti, a tutte le comunità; la vocazione come dimensione della vita, come mistero dell’amore di Dio. In particolare, i giovani devono essere aiutati a riscoprire la dimensione vocazionale della vita e dell’esistenza».

Prima di tutto c’è la vocazione alla vita. Siamo stati chiamati alla vita, non ce la siamo data noi: la cosa più nostra che abbiamo l’abbiamo ricevuta in dono, in modo gratuito. Da questa prima vocazione discendono tutte le altre, permeate dalla fondamentale vocazione all’Amore: siamo stati chiamati alla vita con un gesto che esprime l’amore fra una donna e un uomo e siamo chiamati a viverlo, questo amore, per realizzare la nostra vita. Una forma, la più ordinaria, per realizzare l’amore nella nostra vita è il matrimonio.

P. Puglisi continuava: «Il matrimonio, formarsi la famiglia, è una vocazione, non è un fatto naturale. Capita che due si incontrano, hanno simpatia l’uno verso l’altro e si sposano. La simpatia, l’incontro possono essere dei segni, ma tutti i segni sono ambigui, bisogna fare discernimento dei segni. Non è detto che due che hanno simpatia siano fatti per il matrimonio, io credo che è proprio della persona normale avere simpatia per qualche persona dell’altro sesso.
Una persona che non abbia simpatia per persone dell’altro sesso potrebbe non essere normale.
Quindi, la simpatia non è proprio un segno certo, bisogna vedere qual è il proprio modo di vivere l’amore e, quindi, le due persone dovranno fare eventualmente un cammino di discernimento per capire se è quello il modo con cui dovranno manifestare al mondo l’amore di Dio».

Posso affermare che questa concezione della vita ha accompagnato la mia vita, ma anche quella di quasi due generazioni di giovani e meno giovani, che in qualche modo hanno avuto contatto con Lui.

Poi P. Puglisi richiamava: «L’altra forma, attraverso la quale ciascuno di noi può diventare segno dell’amore di Dio, è la “verginità sponsale”. Io la chiamo cosi. Molti la chiamano “celibato per il Regno dei cieli”. Il termine “verginità sponsale” mi piace di più perché sembra contraddittorio. Vuol dire questo: non è una verginità sterile, che si chiude, che mette barriere, ma è una verginità che si apre ad una fecondità che logicamente non è materiale.
Non voglio dire, però, che la fecondità degli sposi sia semplicemente materiale, altrimenti sarebbe troppo poco, sarebbe la fecondità che hanno le mucche, i cani ecc …
I due genitori generano non solo un corpo, ma una persona e generano una persona che attraversa tutta una vita; chiaramente è, perciò, una generazione che riguarda le diverse componenti della persona umana.
Nella paternità o maternità della verginità sponsale viene semplicemente a parlarsi della generazione spirituale, di quella che l’uomo compie per la dimensione spirituale. La verginità sponsale dice un rapporto immediato con il Cristo».

6. Non temere … Ma a queste scelte si oppone, specialmente oggi, la mancanza di coraggio per scegliere. Non ci sono più molti giovani che scelgono il sacerdozio e la vita consacrata ma anche pochi giovani intraprendono la vita matrimoniale. Ho detto “specialmente oggi” ma forse non è vera questa affermazione. Me lo fa pensare il fatto che nella Sacra Scrittura è riportata per 365 volte l’espressione “non temere”, che evidentemente è la risposta di Dio alla paura che l’uomo avverte ed esprime davanti a qualcosa di sconosciuto, alla paura che gli viene chiesto di iniziare, di compiere qualsiasi azione, piccola o grande che sia.

P. Puglisi diceva che ci sono persone che vivono tutta la vita su di un piede solo, perché per tutta la vita aspettano di… fare il passo.
Per seguire, oggi, lo stile di P.Puglisi cosa possiamo fare per raggiungere i giovani ed aiutarli a mettere in pratica le proposte evangeliche, vere ieri e oggi? Per aiutarli a fare scelte coraggiose per la loro vita, a fare loro scoprire un orizzonte che ha come caratteristica il senso della vita come vocazione, in cui Gesù è il tesoro che dà la felicità?
Prima di tutto dobbiamo credere alla proposta del Vangelo, così come ci credeva P. Puglisi, che viveva un profondo rapporto con Gesù, nutrito di preghiera meditata della Parola e di intimità con Gesù Eucaristia.

Per trovare una via di accesso ai giovani, poi, bisogna usare la via che da sempre è valida, per tutte le età: la via del cuore. Farli sentire amati, fare sentire loro che qualcuno si interessa a loro, che loro sono il futuro e senza di loro il mondo e la Chiesa non hanno futuro.

Oltre le parole vale sempre la pedagogia di Gesù, che P. Puglisi attuava: “Vieni e vedi”: creare occasioni di incontro e di attività in cui i giovani si sentano interpreti, pur se guidati e stimolati da altri più avanti di loro per età ed esperienza, tempi in cui la loro creatività possa essere messa a disposizione di qualcuno che ha bisogno, per provare la gioia del dare, esperienza che non conosci fino a quando non la vivi.

7. IL CORAGGIO DELLA TESTIMONIANZA

“Il mondo ha bisogno di testimoni più che di maestri”, ha detto Paolo VI, ma i testimoni devono sapere che, nei confronti dei giovani, è necessario che siano anche educatori e formatori.

P. Puglisi ha pensato come un credente, in particolare come un presbitero, chiamato ad essere educatore e formatore, non autoritario ma autorevole, capace di dire si e di dire no e di mantenere quanto detto.

Questi due termini, formatore ed educatore, spesso sono usati come sinonimi e così li userò anche io, pur sapendo che non sono tali. Non mi fermerò a sottolineare i punti in comune o le differenze del significato di queste parole, perché sono convinta che, se una persona è veramente formatore, il suo essere formatore si fonde con l’essere educatore.
In P. Puglisi certamente i due aspetti sono presenti e fusi e non credo che lui facesse una differenza a proposito o decidesse a tavolino quando era l’uno o l’altro. Riguardo a questo è sorta in me una immagine: vedo P. Puglisi come lo scultore, che deve dare forma al soggetto che ha in mente -il formatore -e che, per fare questo, deve tirare fuori dal blocco di marmo il soggetto che ha in mente – l’educatore -.

P. Puglisi, però, non ha davanti un blocco di marmo ma la persona e specialmente la persona in una particolare età della vita, l’adolescenza o la prima giovinezza, la persona con cui creare una relazione, strumento speciale per “dare forma e tirare fuori”.

P. Puglisi ha utilizzato la relazione al posto dello scalpello dello scultore. Continuo con l’esempio: una cosa che lo scultore fa prima di iniziare il suo lavoro è stare a guardare il marmo, quasi a vedere la forma già presente, quasi ad ascoltare cosa gli dice, perché in qualche modo dal blocco di marmo riceve la guida per il suo lavoro.

Penso che P. Puglisi facesse la stessa cosa: era un esperto nella virtù dell’ascolto. Lo prendevamo in giro per le sue grandi orecchie: sono state forse un segno della Provvidenza?

Davanti ad una persona, adolescente o giovane, il suo impegno è stato quello di dare una forma, la forma di Gesù vero Uomo e vero Dio, e di tirare fuori da questa persona l’immagine di Gesù presente in ogni persona facendogliene prendere consapevolezza. Per P. Puglisi era normale che attraverso la relazione con lui, la persona instaurasse una relazione personale con Gesù: lui era solo uno strumento.

Nella relazione con Gesù si trova la risposta alla vocazione, al senso della vita ma, per rispondere a qualunque vocazione, si richiede la maturità, a cui i formatori devono accompagnare i giovani. E non è una impresa semplice!

P. Puglisi è stato un appassionato animatore vocazionale e direttore spirituale, ed è riuscito spesso nel suo obiettivo di fare superare le difficoltà determinate dalla mancanza di coraggio, facendo sì che molti, tentati di passare tutta la vita su un piede solo, in attesa di fare il passo, riuscissero a fare quel passo.

Lui ha testimoniato che la paura di fare scelte coraggiose si può vincere solo fidandosi di Uno che può portare a dire sì, senza riserve, rispondendo alla chiamata che questo Uno-Amore fa sentire.

(Dalla rivista “Vocazioni”)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.